di Duccio Rossi

Lo insegna Tucidide, lo ribadisce Machiavelli: la storia si ripete, per questo è utile conoscerla. Conoscere i fatti del passato ci permette di prevedere in qualche modo quelli del futuro, perché la storia, nonostante inevitabili diversità e un innegabile progresso, tende ad essere ciclica, tende a ripetersi. Forse con un periodo di centinaia di anni, ma tende ad avere delle costanti. Eravamo convinti, peccando di tracotanza – di hybris avrebbero detto gli antichi Greci –, di essere giunti all’apice di un processo di sviluppo. Ed invece, contro ogni previsione, il 2020 si è aperto con un evento del quale stentiamo a comprenderne la portata storica: una pandemia.

La parola è una di quelle che evocano epoche passate, che stridono con la nostra idea di presente e attualità. Ci eravamo illusi che la medicina potesse risolvere tutto e subito, che un’epidemia e una crisi sanitaria fossero ormai scenari improbabili, se non nel tempo almeno nello spazio: credevamo insomma che da noi non potesse capitare; al massimo lo si poteva immaginare in terre esotiche e remote, come la città cinese di Wuhan. Ma il nostro progresso scientifico e il nostro pensiero evoluto di uomini occidentali non sono bastati per capire che oggi non esistono più terre remote: è la globalizzazione. Tucidide invitava a guardare al passato per poter prevedere il futuro. A noi, evoluti occidentali, sarebbe bastato molto meno: leggere meglio, senza sottovalutarlo o considerarlo estraneo, il presente dei nostri “vicini cinesi” per prevedere non il futuro bensì il nostro stesso presente, un presente posticipato solo di pochi mesi rispetto a quello di Wuhan.

Soltanto cento anni fa l’epidemia influenzale chiamata “Spagnola” flagellò l’intero pianeta, subito dopo la Grande Guerra. Dal 1918 al 1920 un quarto della popolazione mondiale fu contagiato, con un numero totale di morti che si aggirò intorno ai 60 milioni.

Malattia scagliata da Apollo – La prima attestazione letteraria occidentale di un’epidemia, dal greco antico epì “sopra” e demos “popolo”, nel senso di “che è nel popolo” (così come pandemia da pan “tutto” e demos “popolo”, ovvero “che riguarda tutto il popolo”), si trova nell’Iliade di Omero. In realtà il testo omerico non utilizza il termine epidemia, bensì quello più generico di malattia: kakè noûsos, morbo maligno. Noûsos, forma ionica di nòsos, in greco antico significa appunto “morbo”, “malattia”. E da nòsos, malattia, deriva il nostro oramai quasi desueto termine nosocomio (ospedale). Anche se l’attendibilità storica dei poemi omerici non è da ricercare nelle vicende narrate, l’Iliade e l’Odissea ci forniscono comunque importanti elementi per comprendere la visione del mondo che avevano gli antichi Greci. Omero racconta che Apollo, infuriato con gli Achei per l’offesa che Agamennone aveva arrecato al sacerdote troiano Crise, inizia a colpire i Greci col suo arco d’argento e suoi dardi avvelenati, gettando una pestilenza su tutto l’accampamento dei Danai. Un’epidemia rappresentata per mezzo di una antica categoria: l’antropomorfismo. Il dio Apollo, avente sembianze umane, utilizza un’arma propria degli uomini, l’arco e le frecce, per diffondere l’epidemia, per diffondere l’infezione diremmo oggi. Ma come ci spiega il professor Maurizio Bettini in Bettini-Raveri-Remotti, “Ridere degli dèi, ridere con gli dèi. L’umorismo teologico” (Il Mulino, 2020), il concetto di antropomorfismo deve andare ben oltre il suo originario significato etimologico di “avente forma umana”, altrimenti rischiamo di banalizzare le suggestive rappresentazioni degli antichi e non capirne il vero significato. Citando Plinio il Vecchio, Bettini spiega che gli antichi frazionano la propria condizione nel mondo “e a ciascun frammento attribuiscono il nome e lo statuto di una divinità: in questo modo essi potranno interagire religiosamente con le «porzioni» della propria umana condizione. […] In questo tipo di cultura gli dèi costituiscono non solo un soggetto da venerare e onorare, ma un modo di rappresentare e interpretare il mondo: perché per loro tramite si attribuisce statuto divino alle tante operazioni di cui si compone l’esperienza umana”.

La peste di Atene – Passando dall’epica alla storiografia, un’interessante testimonianza è costituita dal celebre brano della peste di Atene, pestilenza descritta da Tucidide nella sua opera “La Guerra del Peloponneso”. In piena età classica, una terribile epidemia colpì Atene causando, insieme ad altri fattori, la sconfitta della città di Pericle nella guerra contro Sparta.

“[…] All’inizio dell’estate Peloponnesiaci e alleati, con un corpo di spedizione pari a due terzi delle milizie, come accadde l’anno precedente, fecero irruzione in Attica […] Ed erano in Attica da pochi giorni quando iniziò a diffondersi in Atene un’epidemia. […] I medici erano impotenti nel fronteggiare questa malattia sconosciuta, che si trovarono a curare per la prima volta. Anzi, proprio i medici stessi erano le vittime più frequenti poiché, più di altri, si trovavano esposti ai malati e al morbo. […] Su Atene la peste si abbatté fulminea, attaccando per primi gli abitanti del Pireo […] ma il contagio non tardò neppure nella città alta, e il numero dei decessi crebbe spaventosamente, con una progressione vertiginosa. […] Io, da parte mia, esporrò i modi in cui si manifestò, elencando i segni caratteristici, il cui studio risulterà utile, nel caso in cui il morbo colpisca di nuovo, a riconoscerlo in qualche modo, confrontando i sintomi precedentemente studiati. […] Arrossamento degli occhi, accompagnato ad un gonfiore infiammatorio. Gli organi interni, come la laringe e la lingua, tendevano a sanguinare. Il respiro si faceva irregolare e il fiato maleodorante. Dopo questi sintomi, ne sopraggiungevano altri: starnuti e raucedine. E in poco tempo la malattia scendeva al petto con forti attacchi di tosse […]”. (Tucidide, la Guerra del Peloponneso II, 47-49).

Medici impotenti di fronte ad una malattia sconosciuta morivano più di altri, poiché esposti al male come nessun altro. Un numero di decessi crescente con una progressione vertiginosa (oggi parleremmo di curva esponenziale). Impressionanti parallelismi col presente che non hanno bisogno di commento. Vulnerabili, oggi come allora, nella ciclicità della storia. E la fiducia di Tucidide nell’esperienza umana: la necessità di far bagaglio del passato per difendersi dal futuro, nel caso in cui il flagello si fosse un giorno ripresentato.

La peste che uccise l’Imperatore – Passando all’antica Roma, uno spunto interessante ci viene offerto dalla colonna di Marco Aurelio, ubicata in piazza Colonna nel centro di Roma. La colonna di Marco Aurelio, detta anche aureliana o antonina, fu eretta dopo la morte dell’imperatore romano per celebrarne la vittoria sui Marcomanni, Sarmati e Quadi. Sulla colonna istoriata possiamo ancora oggi osservare un bassorilievo che raffigura l’attraversamento del Danubio da parte delle legioni romane nel corso delle guerre marcomanniche, svoltesi nel pieno della così detta peste antonina: un’epidemia forse di vaiolo che flagellò l’impero romano dal 165 d.C. per quasi vent’anni. Tale epidemia fu portata nell’impero dall’esercito romano che rientrava dalle campagne partiche di Lucio Vero e lo stesso Marco Aurelio molto probabilmente ne morì nel 180 d.C. “Durante il diciottesimo anno del suo governo, tra grandi lamenti, il più forte e più grande di tutti gli uomini morì a Vindobona” (Aurelio Vittore, De Caesaribus, 16.14).

Tornando ai nostri giorni, “siamo tutti sulla stessa barca” ha ricordato Papa Francesco, pregando per la fine della pandemia di coronavirus in una Piazza San Pietro incredibilmente vuota. Una barca che è la stessa per tutti non solo su un piano sincronico (oggi in ogni parte del mondo) ma anche su un piano diacronico (ieri come oggi, come domani), poiché nessuna epoca può avere la pretesa di essere al di fuori della storia.