Stavolta la strada che ha imboccato il Ct Simone Pianigiani è diversa dal solito pavè insidioso che fa vibrare continuamente il manubrio. È quella ghiaia fine su cui non puoi permetterti di perdere neanche per un attimo l’equilibrio. Cadere qui, a questo punto del percorso, avrebbe conseguenze molto diverse da qualche graffio e qualche livido, rendendo una chimera quell’arrivo alle Olimpiadi di Rio de Janeito 2016.
I prossimi Europei, infatti, dovranno portarci alle Olimpiadi, per poter mettere sul palcoscenico quanto di meglio il basket tricolore propone, come livello di pallacanestro al confronto con il massimo che possa esistere, e come immagine, utilizzando quei gioielli di famiglia che brillano dall’altra parte dell’Oceano durante l’inverno. Ci siamo già stati a quel livello, con risultati bellissimi e prestigiosi, con una Nazionale che, come dicono tutti i Ct del basket sparsi nel nostro Paese, era fatta di “giocatori che oggi non esistono più”.
Gli stessi Ct che poco prima di quell’ultima apparizione alle Olimpiadi ancora piangevano sulle foto dell’oro di Nantes ’83 (quando magari non erano nemmeno nati). Per combattere tutto questo Simone Pianigiani si è messo in piedi sui pedali cercando di prendere il maggior vantaggio possibile sugli inseguitori, con un modo di pensare il suo ruolo certamente innovativo. Ha creato un progetto tecnico che porta avanti ormai da anni con un nucleo di giocatori consolidato. Ha voluto fortemente la Nazionale sperimentale, che prepara un gruppo ampio di giocatori al “grande salto”, strumento necessario a inserirli con un anno (o due) di anticipo “dentro al sistema”, per ridurre i tempi di inserimento l’anno successivo e rendere i raduni il più efficaci e performanti possibile.
Ha trasferito il modello del club dentro la Nazionale, con raduni lunghissimi in cui non devi solo far vedere un gioco d’attacco il giovedì, perchè domenica si gioca, mmadre vi condividere ogni singolo passo della preparazione, dal convivere insieme al lavorare ogni giorno per ore. Ha valorizzato in questi anni molti giocatori che potevano tranquillamente essere ritenuti dei gregari nelle squadre di club, dimostrando che i progressi individuali (tecnici, tattici e di mentalità) potevano ribaltare il concetto tradizionale per cui vengono convocati in Nazionale (spesso a furor di popolo) quei giocatori reduci da un campionato di alto livello.
Ha affrontato le manifestazioni ufficiali riportando a casa sempre qualcosa in più di quello che tutti si aspettavano, dovendo rinunciare, a turno, a questo o a quell’americano, stretto tra quello che la politica, la diplomazia e la gerarchia richiedevano, oltre al sottile filo che ti tiene legato al carattere del fuoriclasse.
E mentre tutti si sono appassionati (e poi persi) dietro all’ormai famigerato “caso Hackett”, un dosso superato il quale quella salita è sembrata un pò più ripida, lui ha continuato a spingere ostinatamente su quei pedali, lavorando su quelle marce che ha aggiunto al suo cambio con il lavoro, senza perdere poi tanti secondi lungo il tragitto.
Per questo sa che lo sguardo va tenuto sulla strada, apprezzando solo con la coda degli occhi quei tifosi che sventolano le bandierine e che coltivano la speranza di cantare l’inno di Mameli in posti molto più affascinanti di Bellinzona (con tutto il rispetto).
Il ciclismo non mi ha mai appassionato, a conferma del mio monoteismo. Ma la metafora “ciclistica” mi sentivo di doverla al Ct Alfredo Martini. Ah, tutto questo senza dimenticare che “siamo questi”.