Ci sono diecimila buoni motivi per augurarsi la qualificazione del Napoli, peraltro molto in salita. E infatti ce la auguriamo tutti. Però, che meraviglia quell’Atletico Bilbao là… Che rimane, nella sua originalità e nella sua fierezza, un “unicum” talmente straordinario e irripetibile che ti prende di peso, ti stravolge e quasi ti costringe a parteggiare per loro. Perché quelle casacche biancorosse sono l’isola-che-non-c’è di un calcio talmente uguale a se stesso, ormai, che persino a Saragiolo sognano l’arrivo dello Sceicco che li prenda di peso e li trasporti dritti filati in Champions League.
Riflettevo su questo mentre ieri sera davo un’occhiata alla formazione del Napoli (ma poteva essere l’Inter, o la Roma e sarebbe stato lo stesso) e per trovarci un italiano toccava guardare con il lanternino. E mentre il telecronista, disperato, auspicava l’arrivo del terzino sudafricano, della mezzala slovena e del trequartista bielorusso, non potevo fare a meno di sorridere pensando che al Bilbao non troverebbe posto Messi, neanche se si decidesse a dimezzarsi lo stipendio. E chiuderebbero la porta in faccia a Cristiano Ronaldo e a Ibrahimovic, il giorno che si presentassero con gli scarpini e disposti a giocare gratis.
Perché loro sono così. Da sempre. Sono Baschi. Rappresentano qualcosa, quando scendono in campo. Giocano loro. Sembra che giochino per la loro gente, oltre che per il portafoglio. Come se il Napoli, per esempio, che ha una fortissima connotazione territoriale, decidesse di far vestire la maglia azzurra solo ai nativi… Al massimo, Castellammare, Torre Annunziata, Torre del Greco… Non oltre.
Una figata assoluta; se si pensa che con questa filosofia romantica e totalmente fuori dallo spazio-tempo, arrivano a fare la Champions League. E insieme a Real e Barcellona sono gli unici a non essere mai retrocessi in Secunda.
Solo una concessione allo straniero: quella dicitura “Athletic”, orgogliosamente esibita fin dalla nascita. Il giusto omaggio ai portuali di Southampton che un bel giorno (cento e passa anni fa) gli regalarono il calcio e undici maglie per giocarlo (biancorosse a strisce verticali, le stesse del Southampton). Ma ogni volta che bisogna “aprirsi” un po’ al mondo che avanza (lo sponsor sulla maglia, l’allenatore straniero) ecco che si rinchiudono nella sede sociale e si prendono ancora a bottigliate in testa… Perché il mondo va avanti, ma lì dentro (evidentemente) c’è ancora qualcuno che del calcio ha una visione come piace a quei due-tre arcadi che sono rimasti…. E tra quei due-tre arcadi, mi ci metto anch’io. “Qual è la gara più dura che ti ricordi?” , chiesero un giorno a Trapattoni. E lui, senza indugio: “Il ritorno di coppa al San Mames, nel 77… una partita come quella, ne vale una cinquantina…”.
Per questo il Pipita Higuain, ieri sera, era sconsolato… Ha giocato una vita da quelle parti, e sa cosa lo aspetta alla “Catedral”, anche se lo hanno rifatto nuovo.
Auguri, vecchio Napoli. Ne avrai bisogno.