Confesso di avere paura. Paura di trovarmi proprio adesso dentro uno di quei momenti in cui la storia mette alla prova le nostre coscienze, e non riuscire a fare pressoché nulla per superare l’esame.
Provo un insieme di impotenza e inadeguatezza ogni volta che mi arrivano addosso dalla Libia le notizie sui migranti: racconti di soprusi, torture, omicidi, storie di uomini, donne e bambini che mentre corrono verso la libertà, lasciandosi alle spalle guerra e povertà, incontrano lungo il cammino i loro aguzzini. Aguzzini che si avventano su quelle carovane di coraggio e disperazione, trattenute lì in quarantena per impedire che arrivino ad infettare con il virus della verità, la verità della miseria e della sofferenza, le nostre sicurezze.
Infrastrutture per il contrasto dell’immigrazione irregolare, formazione del personale e assistenza tecnica alla Guardia costiera e alla Guardia di frontiera libica, oltre a dieci navi per la ricerca e il soccorso di migranti, dieci motovedette, quattro elicotteri, 24 gommoni, dieci ambulanze, trenta jeep, quindici automobili, trenta telefoni satellitari, mute da sub, binocoli diurni e notturni, bombole per ossigeno. L’equivalente di 800 milioni di euro, che vanno a sommarsi ai 5 miliardi previsti nel 2008.
Questa la dotazione richiesta dal primo ministro libico Al-Sarraj per “fermarli a casa loro” (fonte: internazionale.it), questo l’accordo firmato dal nostro Governo per spostare la linea di confine della tragedia qualche chilometro più a sud, più lontano dai nostri occhi, portandola dal mare alla terra ferma.
Perché se il mare nei cui gorghi sprofondano quelle vite in cerca di salvezza è anche “nostrum”, fatto della stessa acqua che bagna le nostre vacanze estive, quella terra invece è solo loro, terra d’Africa, e ciò, negli intenti di qualcuno, dovrebbe in qualche modo renderci tutto più accettabile.
Ma quando leggo l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Zeid Raad Al Hussein, definire “disumana” la collaborazione tra l’Unione Europea e la guardia costiera libica, non riesco a liberarmi dalla sensazione di stare dentro uno di quei passaggi della storia che un giorno ci volgeremo indietro a rivivere, angosciati, domandandoci come sia potuto accadere che nessuno abbia visto.
Ecco come accade, così, niente di più semplice, niente di più banale. La notizia scivola in mezzo a mille altre, scivola in fondo ai tg, scivola via lungo il piano inclinato delle nostre coscienze. Ci scivola addosso come un tiepido e lieve scirocco che nel suo viaggio da sud ha ormai perso la pungente densità della sabbia del deserto, e non brucia più al contatto con gli occhi.
Ogni voce ed ogni immagine ci oltrepassano, vanno oltre, senza toccarci, e continuiamo ad affrontare la realtà come se quelle notizie fossero solo un indistinguibile suono di sottofondo. Prescindiamo da esse.
Per questo prego laicamente (cioè sto qui a sperare senza nemmeno sapere bene in chi e in che cosa) che le notizie che ci giungono dal deserto libico non siano tutte vere. Prego affinché non sia tutto così vero.
Lo prego, egoisticamente, prima ancora che per quegli uomini e per quelle donne, per me stesso, perché io possa non finire tra i dannati della storia che erano lì quando accadeva l’inenarrabile, tra coloro che in qualche modo hanno visto e sentito, e non hanno detto nulla.
Perché avverto che dire qualcosa in un blog, in una riunione di partito o su Facebook, significa poco più che non dirlo. Una spolveratina alla coscienza. Dovrei fare altro, molto altro, e chissà cos’altro.
Lo so che dovrei, lo so che dovremmo tutti, ma magari la nostra indifferenza deriva dal fatto che non abbiamo capito cosa stia succedendo. Ecco, è così, non abbiamo capito, non può che essere questa la spiegazione. Perché se ancora stiamo qui a disquisire di equilibrio tra accoglienza e sicurezza, a vantarci del calo degli sbarchi, a ragionare di politiche di contenimento, e se citiamo l’umanitarismo trattandolo come un vezzo borghese all’ora del tè, mentre su una terra che si bagna del nostro stesso mare, sta avvenendo ciò che sta avvenendo, vuol dire che evidentemente non abbiamo capito.
Perché se riusciamo anche solo a pensare che ci sia qualcosa, qualsiasi altro interesse, qualsiasi altra considerazione che possa essere messa sul piatto della bilancia, e stare più o meno in equilibrio con il fatto che in Libia i migranti vengono venduti all’asta come schiavi, allora l’unica spiegazione, perlomeno l’unica che possa salvarci, è quella che per qualche misterioso motivo non abbiamo capito cosa stia succedendo.
Di fronte alle immagini della recente inchiesta della CNN che ha mostrato quelle barbarie, il Segretario Generale dell’Onu António Guterres si e definito “inorridito”, ed ha affermato che i responsabili potrebbero essere accusati di “crimini contro l’umanità”. Ma noi, evidentemente, non abbiamo capito.
Perché se avessimo capito, se avessimo anche solo intuito, non potremmo reagire, anzi “non” reagire, in questo modo. Non dopo tutte le volte che la storia ci ha travolto con la stessa violenza, non dopo tutte le volte che abbiamo giurato di assumerla come monito affinché certe cose non accadessero più.
Non ci resta che appellarci all’attenuante di non aver capito, oppure sperare che tutto non sia così vero. Non ci resta che negare, soprattutto di fronte a noi stessi, ogni evidenza.