Nella notte di San Giovanni Firenze sogna e si regala il concerto dell’estate: Eddie Vedder, leader dei Pearl Jam ieri sera ha incantato e stregato il suo pubblico per oltre due ore in un concerto unico e irripetibile. Sono le 22e40 quando il boato dei quasi 50mila accorsi alla Visarno Arena del parco delle Cascine esplode in un lungo applauso. Vedder, taccuino alla mano, saluta e si prende la scena. Non la lascerà mai per tutta la durata del concerto in cui riesce a creare quell’empatia che solo i grandi del rock sanno regalare. E’ un viaggio, sono emozioni una dietro all’altra, sono brividi che la voce perfetta del figlio di Seattle, regala a non finire. Senza risparmiarsi per un secondo. «Oggi sono qui senza la mia band ed è il più grande concerto solista che ho mai fatto, questo succede solo in Italia» esordisce Eddie in un italiano sempre più spigliato. Già perché l’unicità di questo regalo al suo pubblico è la dimensione intima del concerto. Sul palco c’è solo lui con le sue chitarre, l’ukelele, un organo ma soprattutto la sua voce. E a tre anni di distanza dagli ultimi concerti italiani con i Pearl Jam a Milano e a Trieste la forma è a dir poco straordinaria così come la voglia di suonare e cantare.

L’attesa è tutta per la scaletta che Eddie modifica ad ogni concerto ma l’avvio è da brividi: Elderly woman behind the counter in a small town, Wishlist e Immortality. Il pubblico si sintonizza immediatamente e recita a memoria. C’è poi l’omaggio a Cat Stevens con Trouble e quello ai Pink Floyd con Brian Damage. Giusto il tempo per un sorso di immancabile rosso toscano e un omaggio al patrono di Firenze che ci si rituffa tra chitarre e ukelele senza un attimo di respiro tra grandi classici e i pezzi di Into the wild e Ukelele song: Sometimes, I am mine, Can’t keep e la dolce Sleeping by myself. E poi ancora Setting forth, Guaranteed, Rise. La voce graffia, sprofonda e risale, è un vortice di emozioni che culminano quando dalla chitarra escono le note di Black. I 50mila si uniscono alla voce di Vedder per l’omaggio che sale fino al cielo a salutare Chris Cornell, l’amico scomparso. Vedder la chiude con un’implorazione “Come back, come back”. Nell’arena ci si commuove. Ma c’è ancora tempo per tanta musica e qualche omaggio come quelli immancabili a Neil Young con The needle and the damage done o quello a John Lennon con Imagine – la canzone più bella mai scritta sottolinea Ed – e poi ancora verso il finale con Lukin, Porch la carezza di Better man e giù con Last kiss. Sul palco torna Glen Hansard il cantautore irlandese che accompagna Vedder in questo tour e ci si prepara per il gran finale. Dal cilindro esce Falling Slowly in un duetto al di sopra di ogni aspetattiva. Il pubblico è in visibilio, in adorazione per questo mostro sacro della musica mondiale.

C’è ancora tempo per Smile e l’immancabile Rockin’ in the free world, un rito catartico collettivo. Eddie Vedder esce ma rientra. Vuole ringraziare ancora una volta il suo pubblico che lo ha atteso per ore e ore sotto un sole folle. E allora regala l’ultima carezza al cuore con Hard sun. Le luci si accendono, il pubblico si guarda incredulo. Passerà del tempo prima che si possa svegliare dal sogno che ha vissuto.