A volte c’è bisogno del resumé di una storia se no finiamo per perderci nel mare magnum degli episodi, correndo il rischio di non saper più distinguere il bianco dal nero, separare il grano dal loglio, capire chi sono i danneggiati e quali i responsabili. Letizia Giorgianni, giornalista e da oltre un anno presidente dell’associazione “Vittime del salva banche”, portavoce cioè di centinaia di piccoli risparmiatori di Banca Etruria che, grazie ad un blitz notturno del Governo, si trovarono privati dei loro soldi, ricostruisce per noi un autentico memorandum civico. Furono allora le prime vittime (ricordate il suicidio di Civitavecchia?) anzitempo di quel famigerato bail in che non è più stato applicato. La ringraziamo per l’impegno che ha profuso nel suo ruolo (non certo cercato) e per il coraggio nell’affrontare una battaglia che in apparenza sembra impari. “Per decidere bisogna conoscere”, scriveva Luigi Einaudi che fu Governatore della Banca d’Italia, politico e poi Presidente della Repubblica. Un invito implicito a Letizia e a tutti per continuare la battaglia e non arrendersi, affinchè gli italiani (e i senesi con la vicenda Mps) possano decidere nel migliore dei modi, una volta conosciuto (M.T.)

di Letizia Giorgianni

La risoluzione delle ormai celebri quattro banche del novembre 2015 ha avuto gli effetti di un terremoto che ha sconvolto gli assetti di un intero sistema bancario, provocando ripercussioni anche su altri istituti e mettendo a nudo falle al sistema inimmaginabili ed un malcostume diffuso che non potevamo neppure immaginare. Il 22 novembre del 2015 è, infatti, successa una cosa senza precedenti nell’ultimo secolo di storia d’Italia. Per la prima volta, dei risparmiatori hanno perso i propri investimenti per effetto di un provvedimento del Governo. Quella notte, un Consiglio dei ministri convocato d’urgenza ha salvato quattro piccole banche (Banca Marche, Etruria, CariFerrara e CariChieti), ma a pagarne il costo sono stati, oltre agli azionisti, circa 12mila obbligazionisti subordinati che hanno perso i soldi investiti. Per alcuni i risparmi di una vita.

Un fulmine a ciel sereno. Una doccia fredda perché seppur i problemi di queste banche fossero ormai noti, fino allora non si erano mai viste banche fallire, tutt’al più cambiavano nome e si fondevano per appianare i bilanci, e del bail-in, siamo onesti, i più non ne sapevano niente: oltretutto nessun risparmiatore era stato messo in guardia dagli impiegati che, anzi, rassicuravano sui famigerati titoli che molti invece volevano vendere. Titoli (per chi ancora avesse le idee confuse) che rendevano quanto i titoli di Stato e che quindi erano stati venduti con semplicità ai risparmiatori, Un rendimento alto infatti avrebbe potuto allarmare sui rischi.

Senza poi tralasciare le rassicurazioni che arrivavano su questi istituti da parte dei vertici apicali di questa vicenda, a partire dal ministro Padoan. Per dovere istituzionale o per opportunità, Governo e Authority hanno fatto a gara nel dirci che pericoli non ce n’erano e che le banche italiane, a differenza di quelle tedesche, non erano imbottite di titoli tossici. Dichiarazioni del tutto fuori luogo, visto quel che poi è accaduto.

Ma fin qui niente di nuovo; la notizia dei tanti risparmiatori finiti con il cerino in mano ha impegnato giornali e televisioni per un anno intero. E allora meglio affrontare la vicenda facendo un passo indietro e raccontandovi perché Banca Etruria è arrivata ad avere una situazione così disastrosa, e per far questo non mi soffermerò sulla crisi, perché ben altre cose hanno influito sul dissesto di questa banca, legata dalle altre tre poste in risoluzione da diversi tratti comuni: una gestione spregiudicata, dove ad esser violati non sono stati solo le regole della sana finanza ma anche gli articoli del codice penale.

In questi due anni le notizie si sono rincorse, accompagnate dal clamore mediatico suscitato dalla vicenda, ma forse un fiume in piena di informazioni a volte provoca l’effetto contrario, che non è informazione, ma confusione e pressapochismo.

Tra i componenti degli ultimi cda di ex Banca Etruria (perchè adesso si chiama Banca Tirrenica) c’è una lunga lista di nomi, tra cui Lorenzo Rosi, (presidente nell’ultimo Cda della Banca ), Pierluigi Boschi (vice presidente durante la carica di Rosi) e Luciano Nataloni (ex consigliere della Banca, di cui potremo mostrarvi in anteprima anche un interessante documento).

Sono innumerevoli, infatti, le aziende riconducibili sia a Rosi che all’ex consigliere Nataloni, (indagati per conflitto di interesse), che hanno ricevuto dall’istituto di credito finanziamenti che non sono poi stati restituiti. Contribuendo ovviamente  ad allargare notevolmente il buco di bilancio.

L’8 gennaio 2016 (come riferito anche dalla stampa) gli uomini della Polizia Tributaria della Guardia di Finanza, su richiesta della Procura di Arezzo,  perquisiscono ben 14 società che avevano ricevuto finanziamenti da Banca Etruria. Società (questo è il dato fondamentale) riconducibili all’ex presidente di Banca Etruria, Lorenzo Rosi, e all’ex consigliere Luciano Nataloni. Le società perquisite dagli uomini della Guardia di Finanza hanno sede in Toscana, Emilia Romagna e Lombardia. In sostanza, l’ipotesi della Finanza è che i due avrebbero concesso finanziamenti di Banca Etruria a società in qualche modo a loro riconducibili senza fare la necessaria comunicazione agli organi dell’istituto.

E a confermare il quadro già delineato dagli inquirenti sul conflitto di interesse di  alcuni ex dirigenti della Banca, indagati dalla Procura di Arezzo per “omessa comunicazione di conflitto d’interessi” fu proprio una lettera anonima, fatta recapitare almeno dieci giorni prima delle perquisizioni, presso la sede dell’Associazione Vittime del Salvabanche.

Un documento prezioso, consegnato poi in Procura, che porrebbe più di un interrogativo sull’opportunità di alcune operazioni condotte dalla banca che si sono rivelate decisive, in maniera negativa, per la sua bancarotta.

Si tratta di una fattura che lo Studio professionale associato dottori commercialisti di Nataloni ha emesso nei confronti della società Td Group, di Pisa;  una delle 15 società che sono state perquisite dalla Guardia di Finanza di Arezzo. L’oggetto della fattura, datata 21 dicembre 2015, fa riferimento al pagamento di un acconto, pari a 37.528 euro, per un’attività di advisoring, cioè di fatto di consulenza, che lo studio di Nataloni ha prestato nei confronti di Td Group in base a quanto previsto da un contratto datato 10 ottobre 2012. Secondo gli inquirenti la Td Group è considerata una delle società che ha contribuito maggiormente a provocare sofferenze alla Banca Etruria.

Allora a questo punto occorre ricordare che la Banca, attraverso un’operazione condotta dallo stesso Nataloni, ha destinato a Td Group un finanziamento di 5,6 milioni di euro, secondo quanto contenuto nei dossier della Banca d’Italia citati, il 15 dicembre 2015 dal Corriere della Sera.

Secondo l’accusa è una delle operazioni svolte in situazioni di conflitto d’interesse che hanno generato perdite pari a 18 milioni di euro per la banca. E qualcosa ci dice che non era l’unica operazione fatta in conflitto d’interesse, dove i soldi venivano prestati ad aziende senza nessuna garanzia, non rientravano nell’istituto, ma in parte tornavano in tasca agli ex amministratori.

La giudiziaria di questi giorni ci porta la notizia del fallimento della Casteluovese, azienda aretina punto di riferimento nel settore edile, guidata per anni da Lorenzo Rosi, azienda che già era nel mirino degli inquirenti aretini per i prestiti ricevuti da Banca Etruria quando lo stesso Rosi ne era presidente. Ma gli intrecci che stanno dietro al crac dell’istituto aretino sono così tanti che non sarebbe possibile per me evidenziarli e forse neppure immaginarli.

Eppure capire quello che è successo (e sta succedendo) negli intrecci tra banche, politica, regolatori, è nell’interesse di tutti, visto anche le gigantesche dimensioni economiche del problema. Troppo spesso sotto la retorica dell’economia del territorio da sostenere ad ogni costo, si ripete uno schema simile a quello che si è scoperto in Banca Etruria: un gruppo di manager interni, più una serie d’imprenditori e faccendieri esterni che, invece, di amministrare la Banca la usavano come portafogli personale e come strumento per ottenere vantaggi personali: prestiti facili a chi era nella cerchia giusta che raramente si preoccupava di restituirli.

Se a tutto ciò si aggiunge i ritardi con cui Banca d’Italia decide di intervenire, si capisce che è stato veramente un assurdo far pagare tutte queste colpe altrui ai risparmiatori:

Nel 2013 la Vigilanza svela come stanno le cose ma commissaria l’istituto di credito solo nel 2015: perché questo ritardo? E nel frattempo agli sportelli impiegati e dirigenti (come da email rinvenuta durante una perquisizione fatta dalla Guardia di Finanza alla sede amministrativa di Banca Etruria) spingevano correntisti e risparmiatori a sottoscrivere obbligazioni spericolate a pubblico granulare. Una vera e propria ‘cabina di regia’ come è stata descritta dagli inquirenti che avrebbe organizzato il collocamento delle obbligazioni subordinate non solo alla clientela professionale ma, in base a quelle precise direttive, anche alla clientela con profili di investitore a “rischio basso”.

Dopo aver depredato la Banca, infatti, gli ex amministratori dovevano allontanare il commissariamento e hanno disperatamente cercato di ricapitalizzare la banca facendo carneficina sociale. Ed è proprio in questo scenario che arriva un decreto che di fatto, addirittura, anticipa un regolamento europeo e scarica tutto questo mal costume nei risparmiatori “truffati”. No, tutto questo non può essere accettabile.