Matteo Renzi

C’è chi ha scritto che nel caos Pd dello scissione sì-scissione no ci sono “verità non dette”.

Una di queste è che il problema del Congresso del Partito Democratico sta nel fatto che c’è un candidato, Matteo Renzi, che gode di un “vantaggio tecnico”, forse incolmabile, determinato dallo statuto e dalla situazione politica contingente.

Un vantaggio definibile “tecnico” perché non è dato semplicemente dal fatto che nel Pd prevale il consenso nei suoi confronti (rientrerebbe nella normalità del gioco democratico), bensì dal fatto che dentro il Congresso i confini di cosa sia il Pd, e di chi possa dirsi “del Pd”, diventano alquanto indefiniti.

Con le elezioni del Segretario Nazionale aperte a tutti coloro che si dichiarino elettori del Pd un attimo priva di votare, il Congresso sarà di nuovo deciso – tanto da rendere sostanzialmente ininfluenti gli iscritti – da centinaia di migliaia di persone che con la vita interna del partito hanno poco a che fare,  che mai hanno partecipato a qualcosa in questi tre anni e mezzo e che spesso non necessariamente sono certe di votare PD alle elezioni pur avendolo dichiarato (chi non ne conosce almeno una di queste ultime alzi la mano).

Fin qui la parte di vantaggio data dallo statuto.

Si dirà: certo, ma vale per tutti.

E passiamo così alla parte di vantaggio data dalla situazione politica: tutto ciò che sta fuori a sinistra del Pd, già dall’inizio o perché fuoriuscito con la Segreteria Renzi, è indisponibile a partecipare al Congresso, perché ormai si sente così lontano dal Pd da non voler partecipare a niente che lo riguardi. Ma fuori, da sinistra, non vogliono sentir parlare del Pd proprio perché, come si suol dire, ce l’hanno con Renzi e con le sue politiche (e poi anche con chi sta dentro a subirle).

bandiere-pd_32846.jpgDunque più Renzi personalizza su di sé il Pd e più lo porta verso posizioni moderate di centro, e più quella massa di non iscritti che partecipa al congresso sarà composta da elettori orientati verso di lui, per esclusione degli altri.

Il tutto agevolato da un’altra grande anomalia, e cioè che il centrodestra le sue primarie non le fa, e che dunque anche per un potenziale elettore di centrodestra che abbia il desiderio di  “far fuori” la sinistra del Pd per motivi suoi, fosse anche solo rancore verso la vecchia guardia o avversione per la sinistra (quanti ne abbiamo visti nel 2013?), il Congresso ha le porte aperte.

Insomma non funziona come negli USA dove ci sono le primarie dei Repubblicani e quelle dei Democratici ed ognuno partecipa alle sue (esempio banale tanto per capirci, al netto delle profonde differenze dei casi).

Per questo dentro la sfida renziana lanciata nell’ultima Direzione Nazionale “sì fa il congresso, e poi chi vince comanda e chi perde in un angolo” che, parafrasando e interpretrando, è ciò che sostanzialmente ha detto il Segretario PD, ci sta il “non detto” che i candidati alternativi partono con uno svantaggio tecnico difficilmente colmabile allo stato attuale.

Uno svantaggio tecnico determinato dall’azione del Segretario uscente, ma non attraverso la costruzione ed il consolidamento del proprio consenso (che sarebbe vantaggio legittimo e basta), o perlomeno non solo, bensì partendo da un meccanismo statutario e spingendo ma mano lontano dal Pd quell’area di opinione più a sinistra che sola potrebbe cambiare i rapporti di forza congressuali, e che invece diventa indisponibile ad essere della partita.

Si dirà ancora: e allora?

Beh e allora niente, le cose stanno così, punto, e tutti ne trarranno le loro conseguenze, però non facciamo i finti tonti.

pd-spaccato.jpgNon nascondiamoci che il rischio della scissione nel Pd nasce anche da questo, cioè dal fatto che in un partito del leader, dove chi vince guida il partito e chi perde sta in un angolo per quattro anni, la reale ed effettiva contendibilità della leadership è condizione imprescindibile.

Perché se solo vincendo il Congresso si possono far valere le proprie opinioni, quando sai di averlo perso in partenza “per definizione”, il rischio che qualcuno decida di passare la mano diventa concreto.

Insomma se in una partita di calcio si è costretti a giocare undici contro cinque, e l’avversario premette che dopo “chi perde sta zitto e non cogliona”, poi è inevitabile che qualcuno ragioni sul fatto se scendere o meno in campo.

In un recente incontro della minoranza qualcuno ha detto che “se chi vince prende tutto, chi perde se ne va”.

Senza pallone magari, ma se ne va.

Le cose però stanno oggi così non per legge divina, ma perché il Pd non ha affrontato in questi anni alcune questioni dirimenti della sua vita interna, che si pongono fin dai tempi in cui Veltroni propose lo Statuto: le modalità di costituzione ed utilizzo dell’albo degli elettori, il peso del voto degli iscritti rispetto a quello dei non iscritti ed un serio inquadramento statutario del ruolo delle minoranze nella vita interna di un partito incentrato sulla leadership.

Questioni che, è vero, fino a che c’è stata una leadership condivisa, o comunque una volontà di condivisione della gestione del partito, sono state sottovalutate, ma che diventano dirimenti oggi che si prospettano segreterie indisponibili alla sintesi. «Mai custode di un caminetto» dice Renzi.

I richiami all’unità del partito, e le relative accuse di liderismo o scissionismo, abbiamo visto che vanno bene per riempire le pagine del gossip politico, ma se poi non affronti i nodi veri, finisci per continuare a girare a vuoto in attesa di sbattere da qualche parte.

Ora a parte il fatto che un “nodo vero” sarebbe fare una legge elettorale maggioritaria, perché in un contesto proporzionale il Pd rischia di non avere più ragione d’essere. Nessuno pare invece essere davvero intenzionato nel Pd a rinunciare oggi, al di là delle dichiarazioni di facciata, all’ancora di salvezza di una legge proporzionale in cui essere sicuri di non perdere le elezioni, magari non vincerle ma nemmeno perderle.

Ma tornando ai meccanismi interni, il richiamo all’unione finisce per risultare un contenitore vuoto senza la reale volontà di mettersi d’accordo su regole del gioco che garantiscano pluralità, ovvero stabilire che nella scelta del Segretario Nazionale il peso di un iscritto che partecipa attivamente alla vita del partito non può essere lo stesso di un elettore (forse) che capita al circolo una volta ogni quattro anni (che non necessariamente vuol dire escludere i non iscritti dalla scelta), che se costruisci un albo degli elettori devi farlo attribuendo regole e tempi per entrarci che non si limitino ad una firma il giorno delle elezioni e che le minoranze non possono essere tagliate fuori da tutto tra un Congresso ed un altro ed essere relegate, loro malgrado, al patetico ruolo di “quelli che frignano” nelle Direzioni Nazionali o in qualche sperduto circolo.

La sensazione è che ci sia molta preoccupazione di attribuire la responsabilità della scissione all’altro, magari anche paura rispetto alle conseguenze, ma poco disponibilità a mettersi in gioco veramente per scongiurarla.