Brasile_980x571Non c’è stata partita. Quindi, di che vogliamo parlare?
Che un sette a uno, ormai, è un risultato rarissimo anche nelle amichevoli d’agosto. E in campo internazionale, si riserva soltanto a quelle due-tre squadre tipo San Marino o Andorra che hanno un senso solo per Blatter e per i suoi calcoli elettorali.
Non c’è stata partita. Punto. Che la Germania sia più forte del Brasile, è chiaro. Che il Brasile non fosse irresistibile, lo si era capito. E anche che senza Thiago Silva e Neymar (gli unici fuoriclasse dei quali disponeva) sarebbe stata durissima. Ma un sette a uno, beh… Inutile commentare.

C’è un particolare che mi ha molto solleticato, invece. La prima cosa della quale i giornali hanno parlato, ieri sera, è stato il cercare un qualche accostamento, una “liaison” storica, tra lo scempio visto a Belo Horizonte e il “Maracanazo” di quel lontano 1950, quando l’Uruguay di Schiaffino e Ghiggia inflissero al Brasile la batosta più batosta che la storia del calcio ricordi.

E in questo, va detto, i Brasiliani ne escono benissimo.
Dal 1950 è passata troppa acqua sotto i ponti per non evolvere anche dal concetto del “futebol”. Quello era un mondo che era un terzo mondo, soprattutto in certe parti del mondo: e il “futebol” non era solo uno spettacolo da godere. Era invece “l’ aleria do povo” (l’allegria del popolo). Una specie di oppio da somministrare alla gente, il “circenses” da aggiungere a quel poco “panem” del quale si disponeva. E, di conseguenza, oltre che “aleria” doveva essere anche “desespero” (disperazione).
Non è un caso che, all’epoca, la sconfitta sportiva fece sprofondare l’intero paese in un pozzo nero… Ci fu gente che ne uscì malissimo, crisi depressive e persino qualche suicidio.

Il Brasile che oggi lista le bandiere a lutto ed esprime lo sdegno in prima pagina a lettere cubitali (“Vergonha” è la parola più usata) è invece un Brasile (e forse un mondo) diverso.
Ci regala l’illusione di un progresso che spazza via molti luoghi comuni, non ultimo quello che in certe periferie desolate ci si possa suicidare per una partita di pallone, pur importante che sia.

E’ un Brasile che piange umiliato per un giorno, ma intanto ha utilizzato questo Mondiale per fornire una buona immagine di se stesso, forse la migliore che ci potesse dare. Che non sono gli stadi ipertecnologici, le sala-stampa avveniristiche e l’ottima qualità televisiva, ma paradossalmente la gente (specie i giovani) che ha saputo scendere in piazza mettendo alla berlina quei politici che non si stavano accorgendo che l’orologio era andato avanti.
D’accordo il “futebol”, “l’aleria do povo” e tutto il resto… Però vogliamo scuole, ospedali e strade. E poi vogliamo uomini capaci, possibilmente onesti, e una classe dirigente in linea con un paese dove “ordem e progresso” non deve rimanere una scritta retorica sulla bandiera, bensì il punto d’onore di una nazione che si pone ormai stabilmente nel gotha dell’economia mondiale.

Non ho notizie di morti ammazzati o di suicidi di massa… Ci sono stati, dicono, disordini nella favelas, e qualche ferito di troppo…Ma se è per questo contarono una trentina di morti anche nei civilissimi Stati Uniti, quando i Boston Red Sox vinsero le World Series dopo ottant’anni di digiuno.
Brasile 2014 ci saluta lasciandoci qualche riflessione interessante. Poi ci lascia una squadra mediocre (forse il Brasile più modesto degli ultimi vent’anni) ma anche un’idea di mondo più bella di quella che pensavamo, e qualche briciolo di speranza da custodire.

Per essere un pallone che rotola, non potevamo chiedere di più.