Nella vicenda umana sussiste qualcosa di veramente inenarrabile: la Shoah. Difficile è, infatti, poter descrivere un tale sprofondo della storia, dare un senso alla insensatezza, trovare verbo per dire ciò che appare assurdo, ineffabile. Eppure, ammoniva Primo Levi, “se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”. Dunque occorre scongelare le parole dal loro (dal nostro) blocco morale ed emozionale affinché quanto accaduto sia non solo portato a conoscenza dal punto di vista della storia, ma anche fatto “sentire” in tutto il suo terribile, insostenibile impatto di sentimenti.
Il racconto emotivo e “letterario” della Shoah è indubbiamente quello che risulta più difficile e discutibile, poiché sorge inevitabile la domanda di come sia possibile “decorare” di parole tanta crudeltà, fino ad affermare con il filosofo Theodor Adorno che “scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie…”. Solo successivamente lo stesso Adorno avrebbe corretto la perentorietà della sua affermazione dicendo che non le si poteva attribuire una validità assoluta, ma che, comunque, “dopo Auschwitz, poiché esso è stato e resta possibile per un tempo imprevedibile, non ci si può più immaginare un’arte serena”.
E’ dunque in ragione di questi tormentati argomenti che anche all’ebreo rumeno Paul Celan – poeta che alla Shoah dedicò ripetuti versi – si arrivò a contestare la “bellezza” di quelle sue poesie nelle quali, per paradosso, poteva esservi sottesa quasi una sorta di “complicità” alle efferatezze compiute nei campi di sterminio. Va ricordato che la madre del poeta venne annientata ad Auschwitz ed a lei sono dedicati i lancinanti versi che dicono: “Madre, madre / Strappata dall’aria / Strappata dalla terra / Giù / Su / Trascinata…”.
Certo è che raccontare l’Olocausto significa confrontarsi con l’indicibilità delle parole estreme. Tuttavia quelle parole vanno trovate: limpide a fronte di chi vorrebbe infangare una dolorosa memoria, nobili contro l’ignobile, inesorabili di più e al di là della vendetta. Perché, come ci ricordava ancora Primo Levi: “Meditate che questo è stato”. Da qui, allora, il suo angosciato imperativo: “Vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore / stando in casa andando per via, / coricandovi alzandovi; / ripetetele ai vostri figli”. Diversamente “i vostri nati torcano il viso da voi”.