E’ stato chiamato “secolo breve”. Questo l’indovinato titolo che lo storico Eric John Ernest Hobsbawm dette al suo ponderoso saggio dedicato al Novecento e pubblicato nel 1994. Secolo breve, appunto, perché, rispetto ai convenzionali numeri del calendario, ebbe a cominciare con una quindicina d’anni in ritardo, con la tragedia della Grande Guerra. Al punto che anche la storia letteraria novecentesca inizia con due notevoli romanzi legati a quel terribile evento: Addio alle armi di Ernest Hemingway (assai più di una semplice vicenda di “amore e guerra”) e Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline (che dall’esperienza bellica raggiunge, con strazio e ironia, tutti gli anfratti del pessimismo sulla condizione umana).
Il Novecento, dunque, mosse con ritardo e in modo drammatico. E fu poi precoce nel concludersi (ingurgitando frettolosamente un altro pezzo del suo tempo) allorquando nel novembre del 1989, dentro la polvere dell’abbattuto muro di Berlino, si dissolse anche un ciclo della storia. In alcuni di quei mattoni, ritrovati a volte sulla battigia del nuovo millennio, è possibile inciampare ancora oggi a rischio di equilibri e di passi che vorremmo decisamente più spediti.
Ma il secolo scorso è stato soprattutto il tempo della politica di massa, della passione civile, delle scelte e delle azioni che – nel bene e nel male – derivavano da un pensiero. Ce lo ha spiegato molto bene Vittorio Foa nel suo libro Questo Novecento (Einaudi, 1996) dove l’autore, scomparso l’anno scorso, racconta le vicende di un intero secolo con la lucidità e il rigore intellettuale di chi ha una visione della politica intesa come scelta responsabile che sappia sincronizzare il pensiero con l’azione.
Dinanzi alle esitazioni – quelle odierne – che percorrono il debutto di un’era, lo stesso Foa ricordava che ogni nuovo secolo non ha solo nuove vicende, ma anche nuove categorie per comprenderle. E ad ognuno, dunque, è dato il suo tempo da sperimentare e da capire.
A noi che è stata offerta la possibilità di vivere buona parte di un’epoca e l’inizio di un’altra (e di provare quindi il tremore della partenza verso il nuovo con in mano la valigia di abiti talvolta inservibili) verrebbe quasi da alleggerire l’affanno dell’incertezza con il respiro lieve di una canzone, dicendo che “nascerà e non avrà paura nostro figlio… e se è una femmina si chiamerà Futura”. Per intanto chi volesse unirsi al coro è libero di farlo.