In che maniera, dal punto di vista delle donne, siano andate le vicende umane, è ormai cosa risaputa. E chi eventualmente non avesse chiaro qualche passaggio può andare a leggersi il libro pubblicato nel 2000 da Rosalind Miles (che nella traduzione italiana è però reperibile in libreria solo da qualche giorno) con il sarcastico titolo Chi ha cucinato l’ultima cena? Storia femminile del mondo (edizioni Elliot).
Se dunque – come la Miles documenta – il mondo, almeno a partire dall’età del ferro, declinò ben presto al maschile la parola supremazia, è fin troppo ovvio costatare quanto recente sia anche la nascita di una scrittura letteraria femminile.
Non è stato facile, infatti, scalzare pregiudizi, mentalità, cultura e saperi in…fallibili per giungere al riconoscimento pubblico di una letteratura “femminile”. Questo faticoso percorso mosse tra Ottocento e primi del Novecento, allorquando – solo per citare le più note delle scrittrici italiane – Sibilla Aleramo, Ada Negri, Grazia Deledda, attraverso opere segnatamente autobiografiche, trovarono il modo di raccontare finalmente la condizione delle donne e, quindi (da un’ottica femminile) di una intera società. Storie di donne “vere” e non più – come fino ad allora era avvenuto per indelebile inchiostro macho – di eroine e femmine fatali. Fuori da questi stereotipi si iniziò dunque a leggere racconti che della condizione femminile restituivano la realtà e che cominciavano anche a costruire gradualmente una lingua propria (operazione complessa, considerati i codici linguistici forniti fino ad allora dai maschi). Una lingua femminile che subito intese connotarsi per “concretezza”, “fisicità”, “contingenza” e, giusto in ragione di ciò, per una notevole (e nuova) capacità evocante della parola.
A partire dall’Ottocento, ecco allora rivelarsi al mondo la genialità di scrittrici quali Mary Shelley, George Sand, George Eliot, le sorelle Bronte, Sylvia Plath, Virginia Woolf. Proprio la Woolf scriverà un fondamentale saggio sulla condizione femminile e più in particolare su quella di chi, avendone il talento, avesse voluto divenire scrittrice. Il libricino si intitola Una stanza tutta per sé ed è, allo stesso tempo, riflessione, studio antropologico e letterario su tutto ciò che mancava a una donna (l’esclusività di una stanza ne era efficace metafora) per essere se stessa e poterlo raccontare, appunto, da scrittrice.
Ebbene, solo le donne possono dire se oggi quella stanza sia davvero (come, quanto e dove) interamente disponibile.