Prendiamo un film di culto come Ombre rosse (1939), per dire subito come il cinema abbia avuto, fin dagli inizi, una contiguità con la letteratura. Non solo perché la pellicola di John Ford, sceneggiata da Dudley Nichols, trova spunto da un racconto di Ernest Haycox (Stage to Lordsburg) a sua volta ispirato a Boule de suif di Guy de Maupassant, ma ancor di più per la sua struttura narrativa che utilizza, giustappunto, tipici modelli letterari: quello del viaggio, innanzitutto; nonché la rappresentazione di un microcosmo (in tal caso racchiuso in una diligenza), campionario di umanità diverse da cui far emergere, comunque, una morale universale.
Ciò che, infatti, risulta interessante del rapporto tra cinema e letteratura, non è tanto il lunghissimo elenco di soggetti cinematografici tratti da racconti e romanzi (del resto la letteratura rappresenta per la settima arte un bel deposito di storie), quanto, piuttosto, le contaminazioni che tra i due linguaggi si sono prodotte. Magari, a questo proposito, potrebbe essere curioso analizzare la sceneggiatura del San Francesco d’Assisi di Gozzano, così come L’uomo che rubò la Gioconda di D’Annunzio, e ancora gli adattamenti per lo schermo che Verga ebbe a fare di alcuni sue opere narrative e teatrali. Oppure proiettarsi in ben altre e più complesse dimensioni per scandagliare il retroterra letterario (e in tal caso non si parla banalmente di opere narrative divenute soggetti cinematografici) che costituì la formazione di registi quali Rohmer, Truffaut, Ophuls.
Però insistiamo nel dire che quel che maggiormente intriga sono le analogie tra le due tecniche narrative, fino a constatare come la letteratura contemporanea sia giunta ad adottato codici che sono propri del linguaggio cinematografico: nei dialoghi, nel “montaggio” del racconto, nel forte impatto audiovisivo di certe descrizioni. Un esempio su tutti è costituito dalla scrittura di Niccolò Ammaniti, ma già le prime avvisaglie si erano avute con la prosa di Leonardo Sciascia, Ignazio Silone e addirittura in Cesare Pavese.
Circa questa reciproca dialettica tra cinema e letteratura, il regista Eric Rohmer si chiede: “Non è uno dei meriti minori del cinema l’averci resi più severi nei confronti dell’arte del bel dire che segna l’impotenza di dire, più sensibili al vigore dello stile che alla sua enfasi, al verbo che all’aggettivo, all’intenzione e alla dinamica che alla sensazione e alla statica?”. Ci pare che la domanda contenga già la risposta. Ovvero una presa d’atto.