Chi si trovasse a percorrere la strada senese dei Cappuccini – su quella defilata altura di Poggio al Vento che, almeno in parte, è riuscita a respingere gli assalti dell’urbanizzazione – non faticherà più di tanto a percepire il genius loci che vi risiede. Stiamo parlando di Federigo Tozzi, la cui memoria trapela non soltanto attraverso i muri della casa rossa che costeggia la strada e dove lo scrittore (nel podere di Castagneto) trascorse alcuni anni della sua vita, ma pure nella campagna che da lassù declina, si interra e si rialza finché non abbia consegnato all’azzurro il profilo della città.
E’ da questi luoghi, infatti, che muovono i primi apprendimenti dell’intima cosmografia tozziana. “Che punto sarebbe quello dove s’è fermato l’azzurro? Lo sanno le allodole che prima vi si spaziano e poi vengono a buttarsi come pazze vicino a me?”; così scriveva Tozzi in apertura a Bestie, un capolavoro di prose liriche (“liriche senza canto e senza retorica”, le definì Paolo Orano), dense e inquietanti per i loro reconditi significati, per certi sguardi sulla natura indagatori e stranianti. E’ su questa terra, in cui, per virtù delle pagine tozziane, la volta celeste rattrappisce fino al minuscolo luccichio di uno scarabeo, che lo scrittore senese opera i suoi carotaggi per sondare il “profondo”, sperimenta la sua ossessiva qualità visionaria. Nella convinzione – così disse in una novella – che “la realtà delle cose dipende dai nostri sentimenti”. Eh già: la realtà, al di là della sua apparenza, è difficile a comprendersi. Cose e persone sono sempre altro-da-sé. E non a caso anche i protagonisti dei romanzi tozziani non riescono mai ad accettarsi per come sono. Pur nello sforzo di volersi dare una identità – lo annota efficacemente Romano Luperini – rivelano poi insofferenza ed estraneità rispetto a se stessi. Cosicché il loro essere risulta qualcosa di “altro” rispetto al mondo e alla propria coscienza.
Nella narrativa di Tozzi accade ben poco dal punto di vista della trama. Ma prevale, appunto, questo scavo continuo dentro la psicologia dei personaggi che divengono, quindi, caratteri universali. Si svolge così anche l’aggrovigliato filo di una autobiografia ai limiti del subconscio, tutta giocata su un “io” che perde i propri contorni, non ha consistenza; e si proietta allora in un “doppio”, in un individuo che si vuole diverso e allo stesso tempo identico a sé.
Tale era l’universo interiore che si rivelava a Tozzi dal podere di Castagneto, laddove – scrive in chiusura di Bestie – “ci si sta così bene a piangere con la faccia su l’erba fresca, che arriva fino all’anima!”.