Da sempre la città non ha significato soltanto la delimitazione di uno spazio abitato, ma anche un concetto, l’esplicitazione di un’intima visione delle cose e dell’esistere. E’ dunque in ragione di ciò che, nel tempo, ogni città viene “raffigurata” intrecciandone immagine reale e immagine ideale. Questa imago urbis è innanzitutto legata all’esperienza figurativa della pittura e della fotografia che a vario titolo e secondo le diverse esigenze (topografiche, descrittive, ad effetto estetico) mostrano la città ora come realtà d’uso, ora come oggetto di contemplazione. Tuttavia qualunque sia il “punto di vista” del pittore o del fotografo di turno, e anche laddove egli intenda perseguire meri intenti realistici, porterà in quella raffigurazione una sua “idea” di città connessa ai propri riferimenti culturali. E proprio il tramandarsi di questi punti di vista va poi a formare la “leggenda” di determinate città (Siena è ormai fra queste).
Non di meno la letteratura offre visioni e interpretazioni delle città. Si pensi al ribollente scenario di Napoli proposto dalle pagine di Anna Maria Ortese, alla appartata Ferrara di Giorgio Bassani, alla Roma vacua di Alberto Moravia, alla Trieste quando mesta quando ridente di Svevo e Saba, al rifugio di odori e memorie che Dacia Maraini ritrova a Bagheria. O alla Siena di Federigo Tozzi, città che egli amò nei suoi scorci e recessi ma non nei suoi abitanti che ne facevano, secondo lui, una realtà angusta e asfissiante. Insomma un amore/odio tacitamente contraccambiato dai senesi verso il geniale ma troppo scontroso concittadino. Poiché essi, al profilo psicologico della città che emerge dagli scritti tozziani hanno sempre preferito l’immagine “anacronistica”, immaginifica, attraverso cui si è prevalentemente raccontata Siena. Ovvero una dannunziana “città del silenzio” posta dentro al frastornante riverbero della sua memoria. Una raffigurazione di stampo romantico che, probabilmente, continuano a cercare anche i forestieri un po’ cialtroni dei giorni nostri. Gli instancabili pulsanti delle macchinette fotografiche – e quindi gli sguardi che vi stanno dietro – sembrerebbero non voler catturare altro (di Siena e di analoghe città leggendarie) che il brivido del passato, la prodigiosa cartolina. O forse l’insistenza nel voler perpetuare questa visione straniante, è speculare alla confusione delle identità, allo stravolgimento dei paesaggi esteriori e interiori. Per cercare ancora una volta l’immagine di una città (e di se stessi) non solo estetica ma anche etica.