Anche se, almeno negli aspetti fondamentali, la storia degli etruschi non presenta più insondabili oscurità, piace sempre avvolgerla nel mistero. Già il loro nome suscita un ammirato timore non poi così dissimile da chi, nell’antichità, volle descriverne le gesta. Si pensi alle Storie di Erodoto (sua la tesi che gli etruschi fossero emigranti provenienti dall’Asia Minore), alle appassionate tesi di Dioniso di Alicarnasso (che invece ne sosteneva origini autoctone), agli Annali di Livio o alle pagine di Virgilio sulla nascita di Roma. E poi il rebus di quella lingua che secondo la recente opinione di Giovanni Semeraro (Il popolo che sconfisse la morte. Gli etruschi e la loro lingua, Bruno Mondadori, 2006) altro non sarebbe che un incontro tra idiomi mediterranei.
Ciò nonostante il mistero continua a intrigarci. Le sue ombre, ad ogni tramonto, si allungano lungo le coste del Tirreno, negli anfratti delle necropoli, nelle evocanti reliquie riportate alla luce. Gina Lagorio, parlando di una giornata trascorsa a Volterra con Giorgio Caproni ebbe a scrivere: “Furono ore lente, vicino alla necropoli etrusca: un paesaggio dell’anima, dove le parole avevano un suono, e un peso, diversi”. E giusto a Volterra è ambientato il giallo di Valerio Massimo Manfredi intitolato Chimaira, dove un giovane archeologo sta cercando di decifrare una misteriosa anomalia racchiusa nella statuetta etrusca nota come L’ombra della sera (nome che le sarebbe stato attribuito da Gabriele D’Annunzio). Anche in pagine di pura fantasia come quelle di Manfredi, ecco riproporsi tutto un immaginario legato al mito etrusco, al loro culto della morte, poiché – come scrisse Curzio Malaparte – “le vere città degli etruschi sono le necropoli. Le città dei vivi non erano che sobborghi di quelle dei morti”.
Ma la citazione letteraria che forse meglio ci consegna la presunta indole di un popolo è quella di Vincenzo Cardarelli, nato a Carneto Tarquinia. Poeta di grande sensibilità e vena elegiaca, dedica ai suoi luoghi natali queste parole: “Qui rise l’Etrusco, un giorno, coricato, con gli occhi a fior di terra, guardando la marina. E accoglieva nelle sue pupille, il multiforme e silenzioso splendore della terra fiorente e giovane di cui aveva succhiato il mistero gaiamente, senza ribrezzo e senza paura, affondandoci le mani e il viso. Ma rimase seppellito, il solitario orgiasta, nella propria favola luminosa. Benché la gran madre ne custodisca un ricordo così soave che, dove l’Etruria dorme, la terra non fiorisce più che asfodeli”. E quella favola continua.