Se volessimo impicciarci dei nessi tra arte e letteratura, il catalogo sarebbe indubbiamente ricco. Prendere un’opera d’arte a “protagonista” (o tantomeno a pretesto) di un romanzo è operazione da sempre praticata e, soprattutto negli ultimi tempi, anche fin troppo abusata. Basti pensare ad alcuni best-seller come “La ragazza con l’orecchino di perla” di Tracy Chevalier, ispirato all’omonimo quadro di Vermeer (altrimenti detto “La ragazza col turbante”) oppure, sempre della medesima autrice, “La dama e l’unicorno”, in tal caso suggerito dagli arazzi che si conservano al Musée du Moyen Age di Parigi. Di questo accattivante gioco la Chevalier ne ha fatto un genere piuttosto redditizio, inventando, appunto, storie di personaggi tratti dalle opere d’arte. In Italia i suoi romanzi sono pubblicati da Neri Pozza che non a caso ha ideato una collana intitolata “I narratori delle tavole”. Dalla California sembra farle il verso Susan Vreeland che, intrigandosi sempre con Vermeer, ha invece pubblicato “La ragazza in blu”. Del resto il pittore fiammingo – sarà forse per quelle sue figure così misteriose e potenti – pare incontrare facilmente la fantasia degli scrittori. E’ sempre lui, ad esempio, il protagonista indiretto de “La doppia vita di Vermeer” scritto da Luigi Guarnieri e incentrato sulla turbolenta biografia di Han van Meegeren, grande falsario dello stesso Vermeer.
Procedendo a ritroso nel tempo non può essere dimenticato uno dei romanzi più riusciti di Anna Banti (“Artemisia”, edito nel 1947) che rievoca la vita della pittrice seicentesca Artemisia Gentileschi, narrando la vocazione artistica di una donna in lotta con i pregiudizi del suo tempo. Ancora la Vreeland ha ripreso recentemente questa vicenda pubblicando “La passione di Artemisia”.
E figuriamoci, poi, se poteva mancare il metaforico e allucinato Bosch: ci ha pensato l’inglese Gregory Norminton architettando divertenti storie con i personaggi de “La nave dei folli”. Da par suo, in Italia, Marosia Castaldi, attraverso una scrittura decisamente visionaria (si legga “Dava fine alla tremenda notte”) rievoca il pittore Hans Memling e le sue ripetute Madonne col Bambino, dipinte su tele grondanti rosso sangue.
Però, diciamocela tutta, il più bello e inquietante dipinto che incontriamo nella storia della letteratura resta “Il ritratto di Dorian Gray”, poiché su quella tela, infine lacerata da un coltello, è racchiuso il problema se debba essere l’arte a imitare la vita o viceversa. Questione di non poco conto, poiché baloccarsi con l’estetica non può prescindere da un giudizio morale sulla vita e – perché no – sulla (sua) bellezza.