Già da tempo stanno suonando allarmi per la lingua italiana. Una lingua – ha detto recentemente Stefano Bartezzaghi – sempre più “scalza e scravattata”, fatta “di neologismi umoristici, di tormentoni e usi informali”. Nel migliore dei casi una lingua “di plastica”, “media”, ovvero mediocre e omogeneizzata, appunto, al linguaggio dei media. La preoccupazione di linguisti e persone di cultura ha trovato sponda anche nell’edizione 2010 del vocabolario Zingarelli, dove, accanto ai 1200 nuovi ingressi che spiegano cosa debba intendersi con termini del tipo “vipperia” o ginnastica “pump”, si segnalano almeno 2800 parole da salvare, poiché cadute in disuso. Insomma abbiamo parole-panda, a rischio di estinzione, come, ad esempio, “rorido”, “intrudere”, “ubbìa”, “armigero”. Il problema dunque – evidenziava tempo fa Paolo Foschini sul Corriere della Sera – è che a minacciare il nostro parlato non è solo la smania anglofona, ma anche una sorta di “cannibalismo interno” che va ad assassinare parole di cui, invece, potremmo avere ancora bisogno. Anche perché – argomentava ancora Giuseppe Antonelli sul domenicale del Sole 24 Ore del 25 ottobre – le parole desuete non si salvano limitandoci a repertoriarle in un dizionario, ma riproponendole in contesti di larga circolazione, fosse pure la canzonetta.
Dunque saremmo arrivati al punto che scriviamo e parliamo ormai la ex-lingua di Dante. A proposito di Dante e di crisi della lingua italiana, quel grande studioso e divulgatore della Commedia che è Vittorio Sermonti apparirebbe più tollerante di altri, sostenendo che gli anglismi (alcuni utili, altri ridicoli) che si praticano attualmente nella nostra lingua sono assai meno dei gallicismi che usa Dante. E a detta dell’insigne dantista la vitalità di una lingua si vede proprio dagli innesti che possono funzionare oppure no e, quindi, nel corso del tempo andare perduti. E’ del resto noto che nella sua sorprendente ricchezza il lessico della Commedia contenga molteplici elementi dialettali, nonché dei veri e propri neologismi creati da Dante. Alcuni di essi hanno avuto una tale fortuna da essere diventati patrimonio del linguaggio comune (fertile, gabbare, mesto, molesto, quisquilia, tetragono); così come espressioni quali “senza infamia e senza lode” o “il ben dell’intelletto”.
Per quanto ci riguarda continuiamo a restare stupiti dalla modernità, dal potere evocante contenuti nella lingua dantesca (indiscutibile sorgente della nostra comunicazione) al cui confronto quella di noi odierni parlanti risulta sì pratica, ma davvero modesta come la plastica.