Non esisteva ancora internet e per chattare (comunque in tempo “irreale”) occorreva una columba livia (piccione viaggiatore). Ma l’amore virtuale – quello in cui i corpi sono costretti a mettersi in fila dietro ai pensieri – già mieteva vittime logorate dal tormento. Eravamo ai primi secoli del Mille, l’epoca dei trovatori. Cantori, giustappunto, di un amore astratto, impalpabile. Tra costoro Jaufré Rudel, principe di Blaia, che con il suo amor de lonh (amore di lontano) fu precursore di un genere letterario imperniato sui paradossi del sentimento amoroso. Perché paradossale era il suo amore per la contessa di Tripoli (di cui aveva sentito parlare senza averla mai vista) e della quale non desiderava tanto il possesso, quanto il godimento di non poterla possedere. Scriverà infatti: “Dice il vero chi mi chiama ghiotto e desideroso dell’amor lontano, che null’altra gioia tanto mi piace come il godere dell’amor lontano” (la traduzione letterale è di Roberto Gagliardi).
Proprio qualche settimana fa, parlando di letteratura medievale, ricordammo come la poesia trobadorica avesse rappresentato una sorta di educazione intellettuale e sentimentale, caratterizzata dalla tensione dell’innamorato verso una perfetta (e quindi irrealizzabile) condizione che potesse renderlo degno di raggiungere (e congiungersi) con madonna, lei sempre così distante, bella e impossibile.
Dal medioevo ad oggi la passione d’amore ha albergato in molteplici pagine letterarie. Partecipe e intelligente fu il modo con cui Roland Barthes ne dette trasversalmente conto nei Frammenti di un discorso amoroso (1977). Il grande semiologo partì dalla considerazione di come il “discorso amoroso” soffrisse ormai una solitudine estrema, avesse perduto la propria identità. Tutti ne parlano (inadeguatamente) e nessuno che sappia definirne essenza e forma. Davvero colta e appassionata fu allora l’operazione di Barthes che con criteri filologici ebbe a organizzare un glossario (da “abbraccio” a “voler-prendere”, passando per voci quali “assenza”, “inconoscibile”, “sprofondare”) entro cui ricondurre e ri-ragionare, appunto, un “discorso” che, lungo il tempo, si era avvalso, tra le tante, delle parole di Platone, Goethe, Balzac, Musil, Flaubert, Nietzsche, Proust, Gide, Stendhal, dei mistici e degli psicanalisti. Tutto ciò per recuperare una “sentimentalità” relegata a stato di emarginazione. Troppe parole, infatti, si sprecano sull’amore, al punto che gli innamorati non ne trovano più una che della loro condizione possa dire compiutamente il senso.