Strana epoca la nostra, che ci fa vivere in un mondo fatto megalopoli, con il web a simulacro di illusoria democrazia, con/fusi in spazi fisici e mentali dove crescono smisurate periferie (in senso urbanistico e sociale) obbligandoci a ricercare di continuo un ipotetico “centro”. Perché come dice Marc Augé – antropologo e studioso di tutti i non-luoghi – parliamo di “periferie urbane” poiché “in questo modo si designa tutto il tessuto urbano, come se la circonferenza fosse ovunque e il centro da nessuna parte”.
Eh già…, la periferia. Che certamente non corrisponde più alle descrizioni che ne faceva Pasolini, ma che delle analisi di quelle pagine esprime ancora oggi una riaggiornata verità: “i nuovi valori sono quelli del superfluo, cosa che rende superflue, e dunque disperate, le vite”.
Mezzo secolo dopo sembra fare eco all’autore di Ragazzi di vita, un giovane ed emergente scrittore giapponese, Shimada Masahiko, il quale sostiene che la periferia è “un posto dove la storia cessa e il tempo e lo spazio perdono il loro significato”. Per uscirne, a detta di Masahico, esistono solo due strade: o il suicidio o la scrittura.
Conviene senz’altro la seconda ipotesi. Tant’è che le diverse periferie (le marginalità) del mondo, quel gran formicolio di gente che c’è ma non “esiste”, hanno ispirato anche una notevole letteratura. Come dimenticare, ad esempio, lo struggente romanzo di Anna Maria Ortese, Il mare non bagna Napoli, in cui centro e periferia, i luoghi interni ed esterni ad un universo di anti-protagonisti vanno a lambirsi. Non si fatica più di tanto a immaginare Eugenia, la bambina cieca della Ortese, camminare attraverso chissà quale periferia odierna fino a raggiungere un ottico del Centro, comperarsi gli agognati occhiali e “scoprire così la bellezza del mondo” che, invece, non le si rivelerà affatto come tale. Ma, anzi, desolante nei suoi rifiuti, orribile nelle rassegnate miserie degli uomini. Meglio, dunque, la miopia che genera immaginazione, desiderio, sogno, anziché vedere l’evidenza della disperazione.
Il problema della piccola Eugenia sussiste tutt’oggi, deborda in quell’enorme spazio in cui è ormai difficile definire il dentro e il fuori, i margini e il centro, la distanza e la prossimità, l’esclusione e l’appartenenza, l’identità e l’anonimato. A parafrasi di ciò che scriveva Pasolini verrebbe da domandarsi se esista e come, nelle periferie del mondo, “un’ansia di riscatto”, una “silenziosa volontà di rivoluzione”. Perché non si potrà, troppo a lungo, pensare che milioni di esseri umani siano al mondo restando fuori dal mondo.