Se fosse vero che le stagioni non sono più quelle di una volta, artisti e poeti verrebbero ad essere privati di una bella risorsa. Speriamo, quindi, che oggi, vigilia (incerta) di inizio primavera, il ricorrente luogo comune venga smentito dai fatti (meteorologici) e che così possano cantare uccellini e verseggiatori. Diversamente dovremo fare appello ai poeti di una volta, anche se non consola quanto, oltre mezzo secolo fa, già lamentava un ecologico Bertolt Brecht: “molto tempo prima / che ci gettassimo su petrolio, ferro e ammoniaca / c’era ogni anno / il tempo degli alberi che verdeggiavano / irresistibili e violenti”. Insomma, concludeva lo stesso Brecht, altri tempi…, con le giornate più lunghe, il cielo più chiaro, la primavera che poteva annunciarsi in un particolare mutamento dell’aria, mentre “ora leggiamo nei libri / di questa celebrata stagione”.
Se poi pensiamo alle primavere ottocentesche di Recanati che brillavano nell’aria ed esultavano nei campi, appare evidente che doveva trattarsi di una roba talmente bella da mandare in bestia, per contrasto, colui (Leopardi) il quale, invece, non trovava in sé grandi motivi di contentezza, al pari d’un passero solitario restio a far combriccola con i suoi simili “per lo libero ciel”.
Il dramma esistenziale di Giacomo non è certo paragonabile a quello ben più universale che altra primavera annunciò nel 1938 e che nei versi di Montale (Primavera hitleriana) assunse questa drammatica descrizione, allorquando Hitler e Mussolini visitarono Firenze: “Folta la nuvola bianca delle falene impazzite / turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette […] Da poco sul corso è passato un messo infernale […]”. Ecco, allora, che la primavera resta intirizzita in un ritorno di gelo, tanto che l’iniziale nube di farfalle precipita come in una nevicata invernale. In tale frangente della storia c’è davvero il sovvertimento delle stagioni, di un’alba che domani si riaffaccerà “bianca ma senz’ali”. E, peggio ancora, è lo sconvolgimento dei valori, del mondo intero.
Che mai più tornino, dunque, quelle non-primavere e gli indignati versi dei poeti a raccontarle. Meglio il pacificato sole ungarettiano che “si semina in diamanti / di gocciole d’acqua / sull’erba flessuosa” o il paesaggio così minimalista di Emily Dickinson, secondo cui per fare un prato sono sufficienti un trifoglio, un’ape e un sogno, ma soprattutto il sogno. Valga pure per noi la lezione della Dickinson, a meno che perfino i sogni non siano più quelli di una volta.