Lo stil novo sarà stato pure dolce, ma nel Duecento, da un certo punto in poi, i più si deliziavano con una poesia estremamente realistica e giocosa, dove l’amore era tutto ciccia e sensi, la vita una differenza tra avere o non avere denaro (peraltro fondamentale per giocare e bere del buon vino), la religione una contraddizione vivente per colpa di una Chiesa avara e corrotta (“la sposa di Gesù divien venale / donna pubblica or è, lei che era dama”).
Versi spregiudicati, insomma (la raccolta più celebre è quella dei Carmina burana), che parodiando i modelli delle sequenze liturgiche, celebravano, però, la nota triade gioco-vino-amore o lanciavano strali di sarcasmo verso la casta ecclesiastica. Nacque così la poesia goliardica i cui modelli furono coniati da personaggi quali Abelardo (all’indirizzo di Eloisa aveva composto dei carmina amatoria), Ugo di Orléans detto il Primate (sue le composizioni De non miscenda aqua vino; Pontificum spuma, In cratere meo) o l’anonimo Archipoeta di Colonia, che dopo aver fatto ammissione delle proprie debolezze (“vado alla deriva come una nave priva di nocchiero”) dichiara che “condurre una vita austera è per me quasi impossibile; io amo infatti il gioco che mi piace più del miele. Qualunque impresa mi chieda Venere, che non risiede mai negli animi meschini, è una piacevole fatica”.
Fu dunque l’epoca dei clerici vagantes che andavano in giro a far da controcanto ai trovatori: quest’ultimi a idealizzare donne dalle sembianze ultraterrene, gli altri a compiacersi di fanciulle sì fatte: “Sotto il petto delicato si incurvano i fianchi eleganti ed armoniosi, la sua pelle immacolata non rifiuta il tocco tenue delle mie dita che, sotto la vita snella, sfiorano l’ombelico nel ventre lievemente inarcato”.
Grande fascino dovevano avere questi intellettuali vagabondi e “alternativi”, colti ma giocherelloni, dalle virtù nemmeno troppo nascoste, al punto che una tale Fillide confida all’amica Flora: “Come vogliono la scienza e il nostro onore, / come impongono l’usanza e il dovere, / riconosciam che il chierico in amore, / vale assai, assai più del cavaliere”.
Ai crocevia di un’epoca assai combattuta tra progresso e reazione, spiritualismi e godurie, risuonò, quindi, il canto dei goliardi. Se non altro per avvertire – e stavolta senza alcuna ironia – che “tu sorte crudele e volubile incombi su di noi che esponiamo il dorso nudo al capriccio dei tuoi colpi”. Forte di questo avvertimento, la goliardia di qualche secolo dopo sarebbe corsa ai ripari insistendo su un consiglio: “gaudeamus igitur”.