Nel centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, il prossimo Salone internazionale del Libro (Torino, 12-16 maggio) prosegue la sua riflessione sulla memoria ‘seme del futuro’. In tale prospettiva verrà svolta anche una rilettura del Risorgimento (delle sue narrazioni), si ragionerà sui caratteri originari di una identità italiana più o meno effettiva, sulla lingua (le ‘lingue) della nostra nazione, sulle parole chiave del futuro prossimo.
E’ infatti innegabile che una memoria condivisa vive ed è tramandata attraverso un racconto che risulta comunque ‘letterario’ e nel quale, appunto, quella memoria si riconosce, definisce la propria immagine. Lo storico Georges Duby, rifacendosi al grande filosofo Paul Ricoeur, sosteneva che “ogni discorso storico è fondato su una struttura narrativa, su un racconto, su un intreccio”. In ragione di ciò appare evidente quanto importante sia la ‘memoria raccontata’ (la sua istanza creativa) nel costruire una identità comune.
Oggi, peraltro, nell’epoca della comunicazione in tempo reale, il racconto delle cose sembra consumarsi tutto all’istante in mera cronaca, perde di profondità temporale, di ‘durata’. Si hanno così schegge di realtà che paiono come prive di memoria e senza futuro. Pertanto la realtà è irreale, i luoghi dei non-luoghi, le parole negate alla durabilità. Basti pensare all’appena trascorso Novecento per rendersi conto che quel secolo è riposto nei nostri cassetti come un film non montato, fotogrammi che ancora non hanno trovato la cadenza di un filo narrativo o, nella migliore delle ipotesi, cortometraggi anche belli ma un po’ troppo minimalisti. Per cui è già difficile capacitarsi di ciò che è stato soltanto ‘ieri’.
La memoria – e pure l’esercizio critico verso di essa – è insomma necessaria per dare spessore al presente e per capire il ‘dove’ ci troviamo, nel senso dei luoghi mentali e, non di meno, dei luoghi fisici (quale è una Nazione). L’irrinunciabile dimensione universale delle nostre esistenze non può essere equivocata con lo ‘spaesamento’.
Gabriel Garcia Marquez ha scritto che “la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda per raccontarla”. Allora per mantenere viva una coscienza storica non è sufficiente la storiografia (quella scientifica degli studiosi), ma occorre il racconto, anche a prezzo dell’inesattezza, della mitizzazione, dell’invenzione. E la letteratura, a suo modo, si pone a servizio di questa coscienza, costituisce un portentoso antidoto all’oblio, alla smemoratezza, alla ‘fine’ del mondo.