La maestra si pose in piedi dinanzi alla cattedra, chiese attenzione, inclinò leggermente la testa come a farsi pendant della carta geografica che sulla parete di destra piegava in direzione opposta. E prese a leggere con la pacatezza che può essere scelta a registro di commozione: “I cipressi che a Bolgheri alti e schietti / van da San Guido in duplice filar…”. L’aula era racchiusa in un silenzio più distratto che partecipe, anche perché i bambini non è che ricavassero molto da quelle parole tanto solenni; poi l’insegnante fermò la lettura e prese a parlare di sentimenti, ricordi, fanciullezza, nonne, e persino dell’inesorabilità del tempo che non torna indietro. Perché Giosuè Carducci – proseguì la maestra – riuscì ad esprimere tutti i più intimi sentimenti dell’animo umano. Ecco, bambini, per sabato imparerete a memoria fino a “guardando io rispondeva – oh di che cuore!”.
Questa scenetta in cui molti si saranno rivisti, bene si presta a richiamare la dimensione popolare del Carducci, ma non di meno il limbo in cui è stato relegato. Anche, e soprattutto, in considerazione del fatto che la critica non ha mai sciolto le proprie riserve su una poesia alla quale il suo autore intendeva dare responsabilità civili e di analisi storica, oltre che di sperimentalismo formale tutto giocato attraverso le forme classiciste. Un giudizio critico, rimasto appunto sospeso, ove troviamo l’iniziale e positivo riconoscimento di Benedetto Croce (che vide in quei versi un esempio di “integra umanità”), le perplessità di chi successivamente ne evidenziò la scarsa originalità rispetto al panorama europeo (Natalino Sapegno parlò di “poeta minore”), i cauti recuperi di una critica più recente che nella lirica carducciana ha comunque rilevato una sofferta e autentica tensione continuamente rapportata ai temi fondamentali della vita e della morte.
Sappiamo che Carducci, con foga antiromantica, intendeva ripristinare nelle lettere l’antico splendore dell’arte classica che a suo dire era l’unica congeniale al popolo italiano. Ma indubbiamente egli non seppe cogliere il vero senso del romanticismo europeo. E il mondo letterario lasciò ben presto perdere lui e i suoi roboanti versi. Quasi alla maniera del bigio quadrupede che il Vate aveva visto dal treno in corsa, nei paraggi di San Guido, prescindere completamente dai suoi elegiaci sussulti: “Tutto quel chiasso ei non degnò d’un guardo / e a brucar serio e lento seguitò”. Diciamo, dunque, che agli effetti della storia letteraria, Giosuè ebbe a perdere il treno, anzi la coincidenza.