Lo scultore Antony Gormley ha idee suggestive sul corpo umano e su come esso si rapporti con lo spazio in generale. L’artista inglese fa continui calchi del proprio corpo, ne ricava dei ‘vuoti’, così che – egli dice – riesce a “scolpire dall’interno, da una posizione radicale di alterità, per considerare non il corpo che fa qualcosa ma che è qualcosa”. E così ottenere non più la rappresentazione del corpo umano, ma la sua ‘riflessività’. Niente di nuovo – qualcuno potrà obbiettare – anche perché la rappresentazione (esteriore e interiore) del corpo ha da sempre trovato nelle arti le più diverse modalità espressive, rendendo dell’entità corporea le concezioni ideologiche, la sua portata dualistica (parliamo del pensiero occidentale) materiale e spirituale. Questo è accaduto anche in letteratura che, rispetto alla scultura, non può utilizzare la rappresentazione plastica della materia, ma affidare solo alla parola il movimento del corpo, le sue reazioni interiori. Un atto fisico diventa così pensiero, scandaglio intimo. In letteratura, infatti, non esiste descrizione del corpo che non sia pure un’idea. E in proposito, variegate e plausibili sono le tesi. Da Friedrich Schiller che, nel pieno dell’ubriacatura romantica, badava a dire che è lo spirito a costruire il corpo, all’anticonvenzionale Frank Wedeking il quale ribatteva sostenendo come sia la carne ad avere uno spirito, a Samuel Beckett che intese ricomporre il diverbio con approccio esistenzialista: il corpo ha il suo magazzino, lo spirito i suoi tesori. Comunque sia, in letteratura, dietro a un corpo c’è sempre l’affermazione di una visione della vita. Si pensi all’idea di forza naturale e di bellezza contenuta nell’antica letteratura greca che andava a impersonarsi nella figura dell’eroe (uomo e quasi-dio), nell’esaltazione mitica del corpo, sia esso trionfante (Achille), abbattuto (Ettore), razionale (Ulisse). Oppure a quanto la parola letteraria abbia indugiato sul corpo quale luogo del piacere e dell’erotismo: dall’Antologia Palatina a Ovidio alla poesia amorosa dell’età umanistica, dall’Aretino ai libertini e a Casanova, da Lawrence a Miller a Bataille. E ancora l’oltranza di De Sade, l’esercizio retorico-immaginifico del nostro D’Annunzio, l’allegra pornografia di Apollinaire o le sconcezze di Bukowski. E’ chiaro che con il Novecento (con la psicoanalisi, i saperi scientifici) la nozione di corpo andrà ad assumere un nuovo carattere culturale, concettuale, simbolico. Anche il corpo ‘letterario’ acquisterà una sempre maggiore soggettività. Viene in mente il testo poetico di Andrea Zanzotto Esistere psichicamente
(1956), splendidamente giocato in una compenetrazione di corpo e psiche, di parola e di fisicità: “Da questa artificiosa terra-carne / esili acuminati sensi / e sussulti e silenzi, / da questa bava di vicende […] da tutto questo che non è nulla / ed è tutto ciò ch’io sono […]”. Potremmo dunque concludere che, almeno in letteratura, il corpo è diventato l’uomo stesso, fisicamente presente come portatore di idee, come ‘corpo’ della realtà. La fisicità si è fatta parola, e viceversa.