L’ultimo libro di Nada Malanima, La grande casa, è un intenso racconto – protagoniste tre donne speciali, tre inattese eroine, dice l’autrice – dove il dolore pare farsi antidoto al dolore stesso; e ancorché devastante, risulta pacato, silente, compenetrato nella natura. Una natura, però, imponderabile, colta spesso nelle sue manifestazioni più violente e ostili agli esseri umani (forse una furiosa ribellione ai soprusi che gli umani verso di essa perpetrano). Ecco, allora, terremoti di inaudita veemenza, piogge che sbriciolano montagne, eventi (in)naturali di una natura che da madre si fa matrigna. Qualcosa che, figurativamente, potrebbe richiamare i quadri del pittore norvegese Johan Christian Claussen Dahl, di cui è nota la predilezione per i potenti fenomeni atmosferici; o in ragione di certe implicazioni psicologiche, il Campo di grano con corvi di Van Gogh (da sempre piace pensare che sia stato l’ultimo dipinto dell’olandese prima del suicidio) nel quale gli impazziti percorsi dei corvi dentro il cielo cupo, annunciano l’inesorabile. Sono rappresentazioni di un universo scompaginato, che Shelley, in Ode al vento occidentale, osserva nelle “foglie morte … trascinate come spettri in fuga”. Oppure squarci (un Lampo, per dirla con il Pascoli) che rivelano la crudezza della realtà: “E cielo e terra si mostrò qual era: // la terra ansante, livida, in sussulto; / il cielo ingombro, tragico, disfatto: / bianca bianca nel tacito tumulto / una casa apparì sparì d’un tratto; / come un occhio, che, largo, esterrefatto, / s’aprì si chiuse, nella notte nera”. E’ dunque vero che la natura è madre ambigua, capace di dolcezze e di irosi sussulti, di conforti e di malvagità, prodiga o egoista. Persino sconsiderata nei suoi doni, come quando di sole umilia uomini e cose: “Lassù brucia il sole tutto il giorno e la terra è calcina” – scriveva Pavese in Lavorare stanca – “La vetta è bruciata / e la sola freschezza è il respiro”. Secondo la teoria poetica di Eliot c’è poi la natura dei “correlativi oggettivi”, perché mostra cose che generano emozioni (tale è, appunto, la correlatività oggettiva). Concetto che Montale adottò nei versi degli Ossi di seppia: spoglie rinvenute su una spiaggia assolata ad evocare sensazioni di abbandono, disfacimento, morte. Il Montale che confida quanto spesso abbia “incontrato il male di vivere”, e quel male “era il rivo strozzato che gorgoglia, / era l’incartocciarsi della foglia / riarsa, era il cavallo stramazzato”. In questa sorta di antagonismo tra universo e umanità, esistono, tuttavia, alterne tregue. Un patto – è vero, talvolta disatteso – di reciproca comprensione (fors’anche di compassione) che dal punto di vista letterario trova sintesi nella leopardiana Ginestra

(“odorata ginestra, / contenta dei deserti”), cresciuta sugli inceneriti fianchi del Vesuvio. Lassù riesce a sopravvivere in virtù della sua tenacia. Al pari dell’essere umano, che quando della propria condizione è consapevole, diviene sodale dei suoi simili e dell’universo intero.