“Ciao cm va? bnbn tu? tutto bn, k fai? nnt di ke”. Non è la quarta grafia aggiuntasi improvvisamente alla ‘stele di Rosetta’, ma un messaggio odierno, secondo una pratica di scrittura in uso non solo tra ragazzi, ma pure tra manager d’azienda e persino da parte di qualche nonna che, dopo un catecumenato pazientemente condotto dai rampolli di famiglia, è divenuta (raro esempio di una fede che si trasmette dai più giovani agli anziani) correligionaria dell’elettronica e dell’on-line. Così, mentre i telefonini singultano, la Rete cinguetta, i colloquianti live balbettano con poco più di una diecina di parole, altrove si levano i lai di insegnanti, intellettuali, linguisti, che si preoccupano (talvolta si indignano) per come la lingua italiana venga deturpata e progressivamente impoverita. Questo, infatti, sta accadendo, a causa del fatto che si conoscono sempre meno parole e, peraltro, impiegate malissimo. Tempo fa il filologo Cesare Segre denunciava, ad esempio, l’appiattimento dei registri linguistici, evidenziando come nel parlare non ci sia più una differenziazione a seconda delle circostanze, degli interlocutori, dei ruoli. A tavola con gli amici o in un dibattito pubblico, il linguaggio è sempre lo stesso: risaputo, sloganistico, medio-basso. Persino la parolaccia ha perduto la sua efficacia semantica, in quanto adoperata di continuo e a sproposito. E’ il trionfo dell’ovvietà, anche lessicale. Assistiamo a trasmissioni televisive di vario genere in cui il conduttore parla per ore utilizzando un vocabolario limitatissimo, ripetitivo. Dal punto di vista linguistico siamo insomma davanti al cassonetto dell’… indifferenziato. Non manca chi interpreta questo decadimento in chiave socio-politica, deducendo che il clima da basso impero in cui ci troviamo, non può che indurre a parlare ‘basso’, in modo volgare e disadorno. La lingua è svilita perché si è degradato anche il pensiero, i costumi. La repubblica delle banane ha portato pure alla repubblica del banale. Probabilmente bisognerebbe promuovere una campagna di lingua ‘sensoriale’ (termine in auge) per far comprendere quanto sarebbe gratificante percepire (e usare) tutta la gamma espressiva delle parole. Magari con una ‘strategia di mercato’ incentrata sulla sinestesia

(parola in verità piuttosto astrusa) che significa, giustappunto, la contaminazione (fors’anche la goduria) che può trasmettersi da un senso all’altro: come quando solo a guardare l’immagine di un piatto di cacciucco ne avvertiamo anche il profumo. Ebbene, quando la sinestesia diviene linguistica (esiste davvero come figura retorica), si scatena il gioco delle parole ‘sensoriali’. Lo stesso gioco in ragione del quale, per Dante, “’l sol tace” o che per Ungaretti induceva a sentire/vedere un “urlo nero”. Potenza delle parole quando siano conosciute e si sappiano adoperare. Avanti, dunque, con un lessico ‘sensoriale’. Se non altro per riuscire a dire – nel miglior modo possibile – che noi e la lingua che parliamo siamo sempre vivi, che non abbiamo raggiunto la pace… dei sensi.

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