Sono belle a vedersi le parole che sulla pagina bianca compongono architetture di discorsi; e i discorsi che formano conoscenze, e le conoscenze pensieri, e i pensieri sentimenti, che, così scritti, parlano tutte le lingue del mondo. A negare questa esperienza della lettura può essere solo il buio o il pianto, due condizioni in cui le parole ci sono, ma risultano negate all’evidenza. Come se, inibito lo sguardo, anche la parola decadesse. Qualcosa di analogo a quanto Diderot confidava alla sua amata nella Lettera sui ciechi per quelli che ci vedono: “Scrivo senza vedere. E’ la prima volta che scrivo nelle tenebre … senza sapere se formo dei caratteri. Dove nulla ci sarà, leggi che ti amo”. Purtroppo, chi – fuori ogni metafora – si trovi nella condizione di cecità, ha accessi molto limitati alla parola scritta. Qualcosa gli è possibile utilizzando sistemi tattili o, più recentemente, grazie all’informatica. Quando osserviamo una persona che legge attraverso il Braille si ha davvero la sensazione di quanto quelle parole trovino quasi una nuova e fabbrile creazione, uno svelamento: lo scrittore ha faticato (sovente sofferto) a sceglierle, costruirle, saggiarne il suono; ed ora chi le decodifica a fior di pelle, sembra esercitare un impegno pari a quello dell’autore. Il cieco conquista in tal modo la parola scritta; altre volte semplicemente ascoltandola. Ma qualunque sia il mezzo dell’appropriazione, egli subito la interiorizza senza disperderla in confusioni di sguardi, come invece può accadere ai vedenti. Forse proprio per queste ragioni mito e letteratura hanno trovato nella cecità il corrispettivo alla visione interiore, alla divinazione, alla veggenza. Basti pensare a quel san Tommaso i cui occhi di lince non avevano, però, svelato alcunché a cuore ed anima. Non manca, certo, letteratura sull’argomento. Dal D’Annunzio di Notturno al Saramago di Cecità, passando per Wells (Il paese dei ciechi), Dürrenmat (Il cieco), Pinter (La stanza), Hull (Il dono oscuro). Così come, a suo modo, è in tema il Joyce dell’Ulisse e di Gente di Dublino. Ma forse lo scrittore che maggiormente ha illuminato con le parole il buio della cecità è Borges. Il testo più toccante del poeta argentino coincide con la sua nomina (era il 1955) a direttore della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires, 900.000 volumi che lui, pressoché cieco, non avrebbe mai potuto vedere. Scrisse allora: “Nessuno riduca a lacrima o rimprovero / questa dichiarazione della maestria di / Dio, che con magnifica ironia / mi diede insieme i libri e la notte”. Indubbiamente uno strano destino quello che aveva consegnato una città di libri a “occhi privi di luce, che soltanto / possono leggere nelle biblioteche dei sogni / gli insensati paragrafi che cedono / le albe al loro affanno”. E pensare – dice ancora Borges – che “mi figuravo il Paradiso / sotto la specie d’una biblioteca”. Ebbene, piacerebbe pensare che un simile aldilà potesse davvero esistere, in modo che tutti, proprio tutti, avessero da leggere l’intera biblioteca del visibile e dell’invisibile.