In attesa che Stefano Benni aggiorni il suo Bar Sport al nuovo secolo (sono trascorsi quasi 40 anni dall’uscita del libro divenuto un classico dell’umorismo) a tutti è dato vedere come quel luogo, un po’ reale un po’ metaforico (finanche metafisico) resista ancora. L’arrendevole squallore delle luci a neon di un tempo, luccica oggi di lampade a led, ma il Bar Sport è vivo e lotta insieme a noi. Interagisce con la piazza virtuale e con le strade (quasi sempre senza sfondo) sulle quali le parole degli uomini fanno jogging: tenace, inconcludente, necessario. Forse la sintesi del binomio sport/società sta proprio lì, persa tra i vapori della macchina da caffè che quotidianamente irrora i prati incommensurabili dell’ovvietà. Ecco, allora, le chiacchiere assurgere esse stesse a pratica sportiva. Hanno le loro olimpiadi, i primatisti, gli sponsor, le sostanze dopanti, i bilanci in rosso, gli allenatori, i gironi di andata e ritorno, gli immancabili ultras. Lo sport della vita – quello sì di massa – trova allora il verso di svolgere il proprio campionato. E anche in tal caso a vincerlo sono sempre i soliti. Per ridare all’universo sportivo una sua ‘ragionevolezza’ converrebbe davvero indire convegni nei bar. Aiuterebbe, se non altro, a liberarlo da quella schizofrenia che lo sdoppia tra retorica, intenti pedagogici, finalità sociali, e una prassi che, ai diversi livelli organizzativi e agonistici, va puntualmente a smentire certi conclamati valori. I problemi in materia sono complessi e talvolta contradditorî. Non è infatti facile gestire, insieme, business, strutture tecniche, risultati agonistici, propositi educativi, coltivazione di talenti, e tutte le dinamiche umane che vi sono connesse. Ciò che avvilisce è, però, assistere a un esercizio dello sport che potremmo definire ‘disperante’: nelle nevrosi, nelle frequenti slealtà e disonestà di chi lo pratica (o lo promuove), nella dissennata (alienante) baraonda di alcuni supporters, nei costi (e non nei benefici) sociali che ne derivano. Scrisse Jean Cocteau che lo sport era da considerarsi uno specchio della vita psicologica del Novecento. A suo modo continua ad esserlo, per come intersechi diversi aspetti dell’esistenza delle persone. Una testimonianza in tal senso ce la offre anche la letteratura che, in forme diverse, ha saputo narrare quell’universo. Già in questa pagina domenicale abbiamo avuto occasione di parlarne, ma merita, appunto, ricordare che proprio l’esperienza letteraria ha spesso descritto i caratteri, i risvolti psicologici, l’epica, i sentimenti derivanti dallo sport. Sarebbe dunque auspicabile che questa rappresentazione artistica potesse continuare a prodursi, quale riprova che il mondo cui essa si ispira è sempre in grado di suscitare pathos, emozioni, gesta eroiche di vittorie e di sconfitte. A detta di Muhammad Ali i campioni non si fanno in palestra, ma con qualcosa che essi hanno nel loro profondo: un desiderio, un sogno, una visione. Ecco di quale sport vorremmo ascoltare tuttora il racconto. Che, dunque, non vinca il peggiore.