Quanti, in occasione delle recenti elezioni politiche, abbiano eroicamente varcato la porta di un seggio (il 25 per cento degli italiani non ha trovato né cuore né ragione di farlo), si saranno resi conto come in quelle stanze, più di ogni altra volta, incombesse la desolazione. Giustamente ostinati a esercitare un diritto/dovere, i cittadini elettori non avevano mani sufficienti a turarsi naso, occhi, orecchie, altri orifizi. Bieca (per alcuni, ‘sinistra’) era anche la luce che, nella cabina, male illuminava l’angusto spazio di democrazia rappresentativa. Un tempo là dentro potevi portare persino Dio (lui di croci se ne intendeva); oggi, invece, te lo fanno depositare insieme al telefonino, e tu sei nello stabbiolo, solo con le tue incacchiature. Pensi, magari, ai figli, ai nipoti, al domani inesorabilmente ingurgitato dall’oggi, il quale oggi sopravvive solo grazie al fiato risparmiato ieri. Se hai le idee chiare, sai a chi non vuoi dare il voto, ma non certo su chi marcare la tua fiducia. Alla fine tracci un segno, con la stessa sufficienza con cui un’infermiera, prima della notte, potrebbe deporti sul comodino la pasticchina-placebo. Dinanzi a un siffatto sconforto viene in mente un romanzo ormai vecchio di cinquant’anni: La giornata di uno scrutatore di Italo Calvino, sofferta riflessione sull’impegno politico, sulla complessità dei cambiamenti di un’epoca, sulla vita e i sentimenti delle persone. E’ambientato durante le elezioni del 1953 (anche allora era in vigore un “porcellum” chiamato più esplicitamente “legge truffa”). Il protagonista è Amerigo Ormea, scrutatore presso un seggio un po’ particolare, quello allestito al Cottolengo di Torino. Per non lasciarsi prendere dallo squallore dell’ambiente, Amerigo si concentra sullo squallore degli arnesi elettorali (matite, cartelli, le schede piegate come telegrammi), convincendosi che “la democrazia si presentava ai cittadini sotto queste spoglie dimesse, grigie, disadorne”, per essere, al di là di orpelli e fasti esteriori, “lezione d’una morale onesta e austera”. Ma lo scrutatore di Calvino rifletteva pure su una democrazia che, per quanto giovanissima, già era minacciata da “l’ombra grigia dello Stato burocratico”, dalla “vecchia separazione tra amministratori e amministrati”. Mutatis mutandis, c’è un qualcosa del presente che ci accumuna alle consapevolezze e ai tormenti del calviniano Amerigo. Democrazia è, infatti, divenuta parola vuota, rosicata dal tarlo del potere. Non manca, tuttavia, chi ci rassicura ricordando lo sbuffo di sigaro entro cui Winston Churchill racchiuse la sua definizione di democrazia: peggiore forma di governo ad eccezione di tutte le altre forme sperimentate di volta in volta. E, soprattutto, sono in diversi a confidare nella grande ‘adattabilità’ della democrazia, che, dall’agorà dell’antica Grecia, giunge oggi a recriminare i propri diritti sulla concitata piazza della banda larga. Quest’ultima è la novità del momento. Un grumo di istanze, rabbia, utopia. La cosa è indubbiamente seria…, quando non fa sorridere.