C’è un pregiudizio duro a morire: che l’universo concreto del lavoro e dell’impresa, poco abbia a che fare con quello astratto della cultura. Quando va bene – e di questi tempi sempre meno – l’impresa è l’elemosiniere (oggi nobilitato dalla qualifica di sponsor) che finanzia iniziative culturali. Ma, al di là di questo baratto (intelletto e creatività in cambio di lustro pubblicitario) i due mondi restano separati, reciprocamente sospettosi. In Italia, però, c’è stato un personaggio, che con intelligenza e slancio utopico, aveva intuito come la cultura – portatrice di conoscenze, sensibilità, visioni del mondo – potesse essere intrinseca all’industria. Costui fu Adriano Olivetti. Un imprenditore capace e lungimirante, che, nell’aprile del 1955, durante un discorso ai lavoratori, pone la domanda: “Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?”. E si badi bene. Questo sognatore, che aveva ereditato la fabbrica alla morte del padre, nel giro di poco più di un decennio (1946-1958) porta l’azienda a risultati strepitosi. A base di un parametro 100, i prodotti venduti all’estero balzano a 1.787, il fatturato interno a 600, l’occupazione a 258, i salari reali medi a 386 punti. Olivetti diviene una multinazionale con diciannove consociate estere, cinque stabilimenti in Italia, altrettanti all’estero. Nel 1959, agli azionisti riuniti in assemblea, l’ingegner Adriano spiega loro che non bisogna farsi trovare impreparati quando, in un futuro ormai prossimo, “la tecnica elettronica potrà avere notevoli ripercussioni sul metodo di fabbricazione di prodotti attualmente realizzati in via meccanica”. Un industriale, dunque, pragmatico e attento al profitto, che a un certo punto sorprende tutti. Amplia l’organico dell’azienda con ‘strane’ professionalità. Assume intellettuali e scrittori che rispondono ai nomi di Franco Fortini, Giovanni Giudici, Paolo Volponi, Renzo Zorzi, i sociologi Luciano Gallino e Franco Ferrarotti, il designer Ettore Sottsass. Intende perseguire, così, una sintesi creativa tra cultura tecnico-scientifica e cultura umanistica. Da qui nasce l’esperienza di “Comunità”, un movimento che vede uniti ideali socialisti e liberali, allo scopo di rinnovare la cultura economica, sociale e politica del Paese. Un programma politico basato su un mix di federalismo, autonomie locali e democrazia diretta. Mi è tornata in mente la testimonianza di Adriano Olivetti, leggendo un libro (in Italia pubblicato recentemente da Il Mulino) della filosofa americana Martha Nussbaum. Si intitola Non per profitto e sostiene come le discipline umanistiche siano indispensabili per la democrazia e per la crescita economica. Perché la diffusione di una cultura che educhi a pensare, giudicare, discernere, apprezzare il bello, non è alternativa al profitto. Anzi, sulla lunga misura lo realizza. Perciò l’economia deve necessariamente investire in cultura.

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