Il secolare conflitto arabo-israeliano (le ragioni degli uni e degli altri e, magari, anche le disuguali ragioni che gli uni accampano sugli altri) è purtroppo divenuto il paradigma dell’impossibilità della pace, ovunque essa resti solo un desiderio. Un’aspirazione, appunto, ma impraticabile. Pare quasi esserci, nell’esperienza umana, la ‘naturalezza’ all’odio, al sopruso, a fare dell’altro il nemico, che nulla può anche dinanzi all’orrore del sangue, alla distruzione, all’urlo delle madri, al terrore. Quasi a voler sottoscrivere l’amaro verso della canzone di De Gregori (Generale): “perché la guerra è bella, anche se fa male”. E’ doloroso ammetterlo. Ma troppo distante è l’utopia dalla pratica di una pace costruita nella concretezza (nella fatica) di rapporti interpersonali, tra popoli, etnie, fedi religiose. E d’altra parte non può esistere una pace astratta, così come è difficile raggiungerla quando sia già guerra. La convivenza pacifica dovrebbe essere, infatti, una premessa della condizione umana, legata ai valori della persona, soggetto di diritti e di doveri. Non disgiunta dall’idea del bene comune, della solidarietà tra popoli, del lavoro per un progresso condiviso. Un vecchio amico di ritorno dall’ultima Marcia della Pace Perugia-Assisi, mi confidò un senso di arrendevolezza, di stanchezza – e non alludeva certo a quei 25 chilometri fatti a piedi – che lui avvertiva dinanzi a un mondo distratto, quasi annoiato da discorsi (perché tali restano) che chiedono pace. Quelle tante persone in cammino – un tempo segno vivido di denuncia, di giudizio verso la storia – gli erano improvvisamente apparse come una diaspora di ideali. Un piccolo resto di popolo che, a sera, ripiegando le bandiere arcobaleno, chinava anche la testa all’impotenza e allo sconforto. Eppure, anche ora mentre scrivo, sento la radio riferire di teatri di guerra, di vicende che non sono ‘fatti loro’ e indipendenti dal resto del mondo, di situazioni le cui responsabilità sono planetarie. Sarebbe, perciò, ovvio pensare ad un impegno universale affinché alla competizione potesse subentrare la solidarietà, la giustizia dell’uomo per l’uomo. Misurandosi in questo tipo di sforzo, toglieremmo alla pace la melassa di un generico e inconcludente volersi bene, per comprendere che essa si compie, piuttosto, attraverso ‘necessarie’ conflittualità. Ovvero con il confronto – oggi, una necessità storica – che è cosa diversa dall’inimicizia. Confronto come fatto costruttivo, punto di partenza e di tappe per intraprendere cammini nuovi. Per giungere a conclusioni e sintesi sempre diverse. Per realizzare veri progetti di comunicazione umana. Il filosofo Ivan Illich definiva “società conviviale”, quella in cui si fosse capaci di vivere i rapporti umani all’insegna della comunione, nel rispetto delle diversità, nel non-possesso dell’altro. Quando accadesse tutto questo, significherebbe sottoscrivere davvero un trattato di pace. Non una volta per tutte – sia inteso – perché ogni giorno pone conflitti da risolvere prima che degenerino in guerra.