Nel romanzo di Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, c’è una pagina indimenticabile. Siamo nel 1938, l’anno dell’emanazione delle leggi razziali. Tutta la famiglia è festosamente riunita a tavola per la celebrazione della pasqua ebraica. Si sta cantando uno di quei canti che il rito, scandito da una sorta di pedagogia dottrinale, dedica ai bambini; e che in cuore agli adulti risuona come lo struggimento di una nostalgia atavica. Improvvisamente squilla il telefono, qualcuno va a rispondere, ma nessuna voce è all’altro capo. Una, due volte. Non c’è interlocutore. Solo un mutismo minaccioso, vigliacco. Da quel subdolo avvertimento che oltraggia la festa, i sentimenti, l’intimità della casa si giungerà fino all’orribile epilogo: cinque anni dopo i Finzi-Contini saranno deportati nei campi di concentramento nazisti, a morire dentro il più inenarrabile paradosso della storia. La scena descritta da Bassani colpisce per come l’enormità (ma anche l’astrattezza) di un numero (6 milioni saranno gli ebrei sterminati) vada a rimpicciolirsi – e di nuovo a ingigantirsi – nei giorni, nelle stanze, negli affetti di una famiglia. Proprio questa rappresentazione ‘minima’ risulta sconvolgente, poiché induce il pensiero verso ciascuna di quelle persone che andarono a costituire l’atroce somma. Immaginiamo, così, storie famigliari che, al pari delle nostre, intrecciavano amore, vincoli, memorie, progetti. E che – non per fatalità, ma per malvagio disegno – vennero infranti. Tale è la riflessione e il turbamento che ogni volta attanaglia passando dinanzi alla Sinagoga di Siena, sulla cui facciata è posta una pietra. Lo scalpello, temprato a sdegno e pietà, vi ha scalfito queste parole: “Furono pur veri i campi di spietato annientamento, incredibili strumenti di disumana prepotenza. Con sei milioni di ebrei vi scomparvero i deportati da Siena, figli di una dottrina di giustizia e di amore. Con carità e benedizione siano i loro nomi ricordati”. Seguono 14 nomi e la loro età. Inevitabile non notare che Marcella Nissim aveva 20 anni, Gabriella Nissim 14, Morosina Valech 24, suo fratello Ferruccio 13. Di Ferruccio esiste una foto che lo mostra serio, con due occhioni tristi. Lo sguardo che sembra penetrare la cortina del presagio. Il 14 novembre 1943, giorno del suo tredicesimo compleanno, fu fatto entrare nella camera a gas di Auschwitz. Lo tenevano per mano il babbo e lo zio. La sua giovane vita fu spintonata nell’abisso dove tutt’oggi gorgoglia una domanda: “Ma perché?”. A scemenze, malafede, ignoranza, provocazioni che supportano il cosiddetto negazionismo, non si replica con una legge (che, per assurdo, potrebbe addirittura alimentarlo) ma con un impegno civile e culturale. Anche in tal caso valga il binomio di conoscenza e coscienza. Da qui la perentoria ammonizione di Primo Levi in apertura al libro Se questo è un uomo: “Meditate che questo è stato: / vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore / stando in casa andando per via, / coricandovi alzandovi; / ripetetele ai vostri figli”.