Altri tempi quando il Natale era la gran festa del ceto medio. Con le tredicesime immolate sull’altare dei consumi, l’intima soddisfazione di potersi comportare da simil-ricchi (ignorando il fatto che i ricchi – in tal caso come i poveri – non sopportano le feste). Gli ingressi dei palazzi condominiali che profumavano (?) di capitone e gobbi in umido. Le villette a schiera che nelle notti dicembrine si accendevano e spegnevano, quasi a far marameo al mutuo-casa, quello sì, sempre acceso. E il presepe che andava fatto a prescindere. Se non altro per ricordare a se stessi che il Nazareno era un po’ uno di noi. Di condizioni modeste (babbo artigiano, mamma casalinga) aveva studiato, fatto carriera, dimostrato di essere un buon investitore (basti pensare alla moltiplicazione dei pani e dei pesci). Un tipo tosto il self-made man nato avventurosamente a Betlemme. Intelligente, attivissimo, bello-da-dio. Insomma, se lui ce l’aveva fatta, potevamo farcela pure noi. Altri tempi davvero. E ora che la classe media si è trovata a propria insaputa dissolta (perché dissolte sono le motivazioni economiche, politiche e sociali che le avevano dato ragion d’essere), sembra non avere più senso nemmeno il Natale. Svuotato il presepe dei piccoli borghesi, infoltito quello dei poveri (che però non hanno i mezzi per allestirlo), riposto quello dei ricchi (probabilmente in una banca svizzera). Su qualche portone continuano a lampeggiare tristi stelle comete, pur sapendo che i re magi marciano, ma in altre direzioni. Eh già: no middle class, no festa. Però la cosa è seria. Lo dice anche la televisione. Sere fa in uno degli ennesimi servizi giornalistici sulla crisi, si intervistavano gli abitanti di un condominio del ricco Nord. Dodici appartamenti, dodici famiglie. Nessuno di quei nuclei famigliari che fosse rimasto immune da licenziamenti, cassa integrazione, onerose mobilità. Si intravedevano gli interni di belle case, infissi di buona qualità che, ormai, non riescono a parare gli spifferi della depressione economica e psichica. Veniva in mente un romanzo di Piero Jahier (primi del Novecento) intitolato La famiglia povera, dove una madre rimasta sola con i figli lotta quotidianamente per mantenere il decoro borghese di un tempo. Ma la povertà ferisce socialmente, incrina gli affetti, vanifica i credi. Oggi gli ottimisti insistono a dire auguri. I realisti – quelli che pensavano alle feste come alla certificazione di un conquistato status – sostengono che anche il Natale era sovrastimato. E nelle case, nei centri commerciali si trasmette una cover che canta, anzi sospira, “quanta questa povertà”.