A Norbella Marittima il mare non c’era, ma lassù dalle colline, nei giorni d’aria limpida, lo si vedeva luccicare fin dentro l’ultimo cielo. E di guardare lontano tutti avevano bisogno in quel paese in cui la sala da ballo si chiamava Piccolo Mondo e che della sua Rocca teneva così vanto, da avervi rinchiuso, insieme alle memorie, pure il tempo presente. A Norbella viveva la famiglia Pavanti, proprietari, da generazioni, della storica orologeria che sulla piazza affacciava la porta in noce con maniglione d’ottone tirato a lucido. Dietro il banco la signora Bianca, nata Marcelli, apprezzata per i modi cortesi e i generosi décolleté. Nel retrobottega il signor Tarcisio, figura elegante, vestito di impeccabili gessati, catena d’oro e orologio da tasca appartenuto al nonno. Sempre chino sul tavolinetto da lavoro, con il monocolo a scrutare le minuscole meccaniche segnatempo, il signor Tarcisio pareva partecipe di un grande mistero: quello del tempo, giustappunto. Tanto erano connaturali i coniugi Pavanti al paesaggio umano del paese, quanto insignificante risultava la presenza del loro figlio Ludovico. Un ragazzo reso invisibile dalla sua timidezza, bravissimo nello studio, però – badava a dire la gente con rattenuta sentenza – troppo, troppo strano. Si era laureato a pieni voti in Filosofia con una tesi sull’idea di tempo in Henri Bergson. Colui che aveva scritto: “Un’ora, non è solo un’ora, è un vaso colmo di profumi, di suoni, di progetti, di climi”. Quasi una colta dissociazione, quella di Ludovico, dall’attività di famiglia, impegnata da oltre un secolo a fornire orologi, illusori strumenti di calcolo del tempo che – Bergson docet – non è affatto misurabile, poiché disomogenea è la sua durata interiore. Il tempo della scienza non è lo stesso della coscienza. Di questa verità il giovane Pavanti si era convinto già da bambino, allorché, per ore e ore solo in casa, aveva notato come certe giornate fossero interminabili, altre precipitosamente consegnate alla notte. Ma soprattutto da quella prima volta che con il naso schiacciato alla finestra di camera, si mise a fissare l’orologio della torre civica mormorando: fermati, fermati, ho detto fermati. E si accorse che le brunite lance restarono davvero immobili fino a suo nuovo comando. Ormai da vent’anni e ogni giorno, soprattutto nei momenti di inspiegabile contentezza, Ludovico praticava tale gioco in modalità e tempi variabili. Il prodigio non si limitava, peraltro, all’orologio della piazza. Perché quando lui voleva, una specie di bolla magnetica avvolgeva l’intero paese e tutti gli orologi si fermavano. Così che il tempo di Norbella era, a insaputa degli abitanti, molto indietro rispetto al resto del mondo. Le incongruenze tra calendario, meteorologia, cadenza delle stagioni si pensavano dovute alle indubbie peculiarità del luogo. Ad accorgersi che qualcosa non andava fu il maestro Germani, lui sì uomo di mondo (aveva insegnato a Pordenone, Vibo Valentia, Sulmona) che la sera di capodanno del 1955 ricevette una chiamata al posto telefonico pubblico da parte di un ex collega abruzzese, intenzionato a venirlo a trovare “per le imminenti vacanze di pasqua”. Fu chiaro, allora, che mentre in tutta Italia fervevano i preparativi per le processioni del Gesù-morto, a Norbella sballavano i fuochi d’artificio e ammaiavano la sala del Piccolo Mondo per la festa di fine d’anno. Boh… – andava rimuginando Germani mentre risaliva verso casa – e se mai fosse, di quale pasqua stiamo parlando? Dell’anno che a Norbella sta per finire o di quello venturo? Ma per l’amor di Dio, lasciamo perdere. Qua si vive bene così. Non solleviamo questioni che potrebbero rompere il sonnacchioso equilibrio di una comunità dove le dosi giuste (e a lento rilascio) di schiettezza, ipocrisia, bontà e perfidia fanno di questo posto l’accorta profilassi del mal di vivere. E poi – sobbalzò il maestro allungando il passo e volgendo i pensieri al suo privato – non scherziamo: è con il nuovo anno che la vedova Arrighi, in ragione di un luttuoso (scellerato) fioretto, avrebbe sciolto il suo voto di seconda verginità. Dunque, e a maggior ragione, meglio evitare problemi di calendarizzazione rispetto ai quali la fregola non avrebbe saputo darsi ulteriori proroghe. Sicuro delle proprie argomentazioni rincasò e cominciò anche lui a prepararsi per il veglione di fine d’anno. Quando il maestro Germani varcò la soglia del Piccolo Mondo la prima sensazione fu di una struggente compassione. Tutti sembravano felici o si impegnavano goffamente ad esserlo. L’orchestrina ci dava dentro. Si ballava, rideva, pomiciava. Si dicevano le scemenze di circostanza. Sorrideva persino Ludovico, il vero organizzatore del bislacco e diacronico capodanno. A lui era dovuta quella felicità quasi perfetta. Era lui il baro che sottraeva il tempo ai ricchi per darlo ai poveri. Qualche minuto prima della mezzanotte venne chiesto silenzio, così da poter sentire il primo battito dell’orologio di piazza, da sempre massima autorità a decretare che ora realmente fosse sotto il cielo di Norbella. Giunsero i rintocchi e saltarono i tappi dello spumante. Auguri auguri, braccia intrecciate nei brindisi, trattenuta commozione (chi non ha in cuor suo rimpianti?) allorché il valzer delle candele ci mise del suo. La festa proseguì sino a sfilacciarsi in sonno e noia. Sulla pista da ballo resistevano pochi ostinati. All’uscita la famiglia Pavanti incontrò il maestro Germani e percorsero un tratto di strada insieme. Giunti in piazza, nuovo scambio di auguri. “Che ora fai?” chiese il maestro a Ludovico. L’orologio della torre batté le 3. Com’era esatto il tempo a Norbella Marittima!