Il trascorso 2013 è stato, per il mondo delle lettere, l’anno di Giovanni Boccaccio. Si sono celebrati, infatti, i settecento anni dalla nascita di colui che fu, senza dubbio, il maggiore narratore europeo nel panorama letterario del XIV secolo. La ricorrenza è stata l’occasione per rileggere questo autore e soprattutto il suo libro più celebre, il Decameron. Capolavoro della narrativa occidentale, opera fondante la prosa in volgare italiano e che, per stile, poesia e umanità, risultò quasi un anticipo di Rinascimento. Un libro che va letto nella sua interezza, anche per liberarlo da quei luoghi comuni che lo credono esclusivamente pervaso dai sensi e dalla carne, fino ad aver fatto del termine “boccaccesco” il sinonimo di spinto, triviale, scurrile, greve. O che hanno portato a definire quelle pagine “immorali”, quando, invece, vi è sotteso proprio un giudizio morale sull’uomo, una interpretazione realistica dell’esperienza umana, un’arguta rappresentazione della società di quel tempo (siamo nell’esatta metà del 1300). Come ci ha insegnato Vittore Branca, illustre filologo e studioso di Boccaccio, il Decameron è la poetica e eterna leggenda dell’essere umano, sempre in lotta tra il bene e il male, diviso tra i piaceri mondani e gli aneliti ultraterreni. Ma è pure una grandiosa commedia della società medievale europea, dell’autunno del medioevo e delle trasformazioni radicali che andavano a compiersi nella sfera politica, civile, economica, culturale. Ecco, dunque, la messinscena di tutto ciò attraverso una instancabile verve narrativa che non tralascia alcun registro: comico, drammatico, sensuale. Vi è la canzonatura, la pietas, la turpe viziosità e l’eroica virtù, la crassa sensualità e lo slancio spirituale. E – mirabile capacità di saper raccontare – il realismo e la sua continua trasfigurazione fiabesca. Una rilettura del Decameron offre, infine, anche qualche tentazione attualizzante. Boccaccio, nell’introduzione, avverte che l’umanità è sconvolta dalla peste e medita su “li vizi umani e li valori”. Dice che il terribile contagio scatena “ogni più crudel sentimento”, distrugge relazioni, idealità, comportamenti sociali. Qualcosa, insomma, che assomiglia molto al nostro presente ammorbato dalle più diverse pestilenze, magari più subdole, meno lugubri e spettacolose di quelle medievali. Per cui la domanda appare inevitabile: dove andare per salvarsi dalle odierne epidemie?; e quali novelle raccontarci per spiegare l’oggi, o, meglio ancora, per raffigurarci una morale, degli ideali, una speranza condivisa? Quali parole occorreranno per rifondare una civiltà?