Fu con il film Nostalghia (1983) di Andrej Tarkovskij che compresi quanto fosse magnificamente possibile ‘travisare’ i luoghi, trasferendovi interiorità e storie personali. Ricorderete la scena finale del film. Il protagonista, il poeta Gortčakov, siede in terra con il suo cane dentro la scoperchiata Abbazia di San Galgano, tra impietrite spoglie d’arte e di fede. Gortčakov guarda verso noi come a cercare la condivisione di un sentimento: sofferto, al momento acquietato. L’immagine si allarga. Alla solennità gotica di San Galgano si sovrappone la mestizia della steppa russa. Nevica dentro le navate cisterciensi, ma pure sulla isba, sulla casa natale del poeta, mentre il canto domestico di una donna tormenta il ricordo (la nostalgia, appunto). Appare quindi una scritta: alla memoria di mia madre. Ad onorare, così, la maternità che deriva dal sangue e quella culturale delle proprie radici. Un sentimento, dunque, che, sulla cadenza dell’elegia, va a innestarsi in altra cultura, quale è quella rappresentata nell’arte e nel paesaggio toscano. Nei materiali di preparazione alla scrittura del film, Tarkovskij annotò delle impressioni sulle terre toscane che, peraltro, sembrano perfettamente mutuate da Mario Luzi, che, notoriamente, nelle sue liriche, scelse tale scenario per farne il luogo stupefacente della morte e della rinascita, del trapassato e del divenire. Il regista russo, quasi sulla filigrana di certe pagine luziane, parla di “alternanza di luce e di ombra”, della “superficie liscia delle colline, che come onde del mare che si spingono l’una dopo l’altra fino all’orizzonte, sembra il respiro della vita stessa”; e conclude che “questa terra arata di Toscana percorsa dalle ombre delle nuvole è bella quasi come sono i miei boschi, le mie colline, i miei campi, lontani, russi, antichi, irraggiungibili ed eterni”. Ecco, allora, come la ‘visione’ di un luogo divenga proiezione di se stessi, del modo con cui intendiamo il nostro ‘vero’. Al punto che sono le nostre emozioni a stabilire la focale con cui si intende fissare la ‘realtà’ che, forse, tale non è più, in ragione di quanto l’abbiamo idealizzata e finanche ideologizzata. Alla ‘veduta’ dei luoghi ne preferiamo la ‘visione’. Poiché culture, modelli estetici, educazioni sentimentali, fanno sì che ciascuno cerchi, nelle geografie più diverse, la sintesi della propria visione del mondo. Esiste un photoshop dell’anima che trucca la visione reale (?) delle cose ancora prima di guardarle. Perché assumano il significato che noi desideriamo, in simbiosi con la nostra memoria, a consolazione di quanto abbiamo perduto o vorremmo avere (ed essere).