Niente da fare: l’lSEE in Italia non va più di moda.
Come è noto dietro l’acronimo (che sta per Indicatore della Situazione Economica Equivalente) si nasconde lo strumento che ci eravamo dati per misurare la reale e complessiva condizione economica di un cittadino.
Per carità, strumento che ha tutti i suoi difetti, passibile di giudizi contrastanti in funzione delle visioni della società di ognuno di noi, e con la necessità di rivisitarne i meccanismi di calcolo nel tempo, come si suol dire “per approssimazioni successive”, cosi da renderlo il più equo possibile in ogni momento storico.
Soprattutto funzionante davvero se associato a misure serie di lotta all’evasione fiscale, perché altrimenti diventa esso stesso produttore di iniquità.
Ma rimane il fatto che vale per l’ISEE ciò che per Churchill valeva per la democrazia: il peggior strumento possibile, ad eccezione di tutti gli altri a disposizione.
Perché l’ISEE, concettualmente, con la democrazia, intesa come regno dell’uguaglianza sostanziale, può avere molto a che fare.
Infatti in un sistema democratico le misure fiscali si determinano in base alla capacità contributiva dei cittadini, e le politiche di redistribuzione si modulano in funzione dei bisogni degli stessi.
Capacità contributiva e bisogni che i soli redditi personali possono non essere sufficienti ad individuare: perché tu puoi avere bassi redditi, ma magari tante proprietà immobiliari, tanti soldi in banca, tanti titoli finanziari nel portafoglio, oppure vivere in una famiglia abbiente. In quel caso non puoi essere considerato povero solo perché tale risulteresti dalla tua denuncia dei redditi.
Oppure viceversa puoi avere redditi apparentemente alti, ma poi una famiglia numerosa da mantenere, magari con al suo interno anche situazioni di disagio, e allora il tuo reddito finisce per sparire dentro al bisogno.
Evidentemente però a forza di semplificare, anche l’ISEE, che tutto questo va a leggere, è diventato troppo complicato da calcolare.
Certo leggere le situazioni economiche dei cittadini in maniera adeguata non significa, di per sé, la garanzia dell’adozione di politiche improntate all’equità, perché poi la differenza la fanno le soglie individuate per l’accesso a servizi, agevolazioni e contribuzioni.
Ma se intanto non crei diseguaglianze a monte, hai più speranze di non ritrovartele a valle del processo.
Invece si danno ottanta euro in più ai lavoratori in base al reddito personale, ma tralasciando la verifica sulle loro complessive condizioni economiche. Cosìcché il bonus può finire a famiglie plurireddito milionarie, ma non toccare ad altre con un solo reddito di poco superiore alla soglia prevista, pur se numerose e magari in difficoltà.
Si danno 500 euro a tutti i diciottenni da spendere in cultura, senza distinguere tra loro chi 500 euro non sa nemmeno di che colore siano e chi può permettersi di spenderli abitualmente per un paio di jeans.
Si dà un bonus a chi ha almeno tre figli minorenni, senza tenere conto che di figli se ne possono avere solo due, uno, o anche nessuno, ma trovarsi in una situazione di difficoltà economica maggiore (l’ISEE lo si è utilizzato in questo caso, ma solo per individuare gli aventi diritto tra chi comunque ha tre o più figli minorenni).
Si aumenta la quattordicesima alle pensioni fino a 750 euro, e la si dà ai pensionati con redditi fino a 1.000 euro, senza tenere conto della reale condizione economica del pensionato.
Mettere risorse sulle pensioni più basse è roba di sinistra si dice: innegabile. Lo è non tanto perché si interviene sul bisogno, visto che appunto non è detto che sia sempre così, ma perché si attribuisce dignità al lavoro svolto durante tutta una vita. D’altronde la stessa quattordicesima fu introdotta nel 2007 da Prodi basandosi sui soli redditi personali.
Però tra il 2007 ed oggi c’è nel mezzo tutta una lunga crisi economica e la legge Fornero, con la prima che ha allargato drammaticamente la forbice delle diseguaglianze economiche e sociali, e la seconda che ha reso ancora più iniquo il sistema pensionistico, aggravando la disparità di trattamento tra chi è già in pensione e chi ci andrà. Scavando ancora di più quel solco, già esistente, tra i pensionati del retributivo e quelli futuri del contributivo.
Alla luce di tutto questo se, come prevede l’accordo firmato tra Governo e sindacati per la legge di stabilità 2017, anche questa volta distribuisci risorse senza un’analisi complessiva del bisogno da effettuarsi attraverso l’ISEE, e soprattutto se in questo modo ti aggiungi alla già lunga sequenza di politiche analoghe, la cosa assume un sapore diverso rispetto ad una chiara politica di sinistra.
Le poche risorse a disposizione era giusto darle tutte, e dunque in misura maggiore a ciascuno dei destinatari, a coloro che tra quegli stessi percettori di pensioni basse ne hanno davvero bisogno; non solo perché si sarebbe potuto dare risposte più efficaci al vero disagio economico, ma anche perché in un Paese in cui le nuove generazioni faticheranno a prenderla la pensione, l’asticella degli standard di equità delle politiche pensionistiche va messo molto in alto.
Invece al Presidente dell’Inps che si era azzardato a proporre di utilizzare l’lSEE per “distinguere”, per separare il grano dal loglio, i sindacati dei pensionati hanno risposto di farsi gli affari suoi, nella cortese forma del “Boeri pensi a fare bene il suo lavoro”.
Certo, sarà appunto che in questo caso il sindacato ha fatto strettamente il proprio lavoro, e visto che rappresenta sia i pensionati poveri che quelli meno poveri, agisce di conseguenza.
Sarà che ai tavoli dove si firmano gli accordi un sindacato dei giovani disoccupati non c’è mai.
Sarà che alle elezioni votano tutti (e pure al referendum costituzionale), e che ogni voto vale uno, e dunque per il governo è più utile distribuire poco a più elettori, bisognosi o meno che siano, che di più a chi ha più bisogno.
Che poi è come dire che dentro la crisi economica, che inesorabilmente da un lato diventa crisi di fiducia verso i partiti e le istituzioni, e dall’altro accentua le tendenze all’egoismo sociale, lo spazio per politiche di ampio respiro di riduzione delle diseguaglianze – sociali, economiche e generazionali – che si appellino al principio di solidarietà, viene cancellato dalla necessità di ricercare consenso immediato e spendibile a stretto giro.
Insomma saranno tante cose messe assieme, ma intanto oggi il nostro non è un Paese per giovani.
E nemmeno per ISEE.