Quella andata in scena in questi ultimi due giorni a Siena pare più una rappresentazione teatrale scritta da Shakespeare che non un confronto sul futuro di un grande gruppo bancario strategico per la città e per l’intera economia toscana. È vero, come hanno ripetuto i due protagonisti, Alessandro Profumo e Antonella Mansi, che non c’è nulla di personale, però entrambi sono portatori di interessi così tanto diversi da arrivare ad uno scontro per molti, compreso il sottoscritto, inaspettato nei toni e persino nel risultato finale.

Quasi come due personaggi delle tragedie shakespeariane Profumo e Mansi incarnano caratteri umani diversi e tra loro confliggenti. La forza del primo contrapposta alla grazia della seconda, l’esperienza del presidente contrapposta alla “prima volta in assemblea” della presidente, il decisionismo di Profumo contro la richiesta di temporeggiare di Mansi, infine, ed è quello che ha colpito gli spettatori, lo scontro tra la determinazione dell’uomo forte contro quella della donna altrettanto forte. Profumo richiama così re Riccardo II che incapace nel concludere accordi e compromessi finisce deposto per una congiura dei Pari d’Inghilterra, mentre la Mansi richiama Lady Macbeth, con il suo carico di forte personalità e di crudele determinazione nel raggiungere il risultato, in quel caso l’incoronazione a Re dell’incerto marito.

Ha vinto la seconda, come si era già immaginato dopo il rinvio sul filo di lana di venerdì. Ha perso il primo che adesso si ritirerà a meditare sul suo futuro in Mps. A gennaio con la riunione del cda deciderà, "a sangue freddo", eventuali dimissioni. Scrive Camilla Conti su Huffingtonpost.it che per Profumo la storia si ripete, come fosse una maledizione. Nel 2010 si dimise da Unicredit dove trovò a fargli muro le Fondazioni di Torino, Milano e Verona, oggi è ad un bivio a Siena dove si è scornato con la Fondazione Mps, sebbene male in arnese. Però, oggi come ieri, a decidere la sua sconfitta sembra essere stata, più che la valentia degli avversari, la sua protervia nel guidare, l’arroganza nel far digerire ad altri le sue decisioni, il sentirsi solo al comando in forza di chissà quale ruolo salvifico.

Lo si era capito dieci giorni fa quando aveva rilasciato un’intervista a Rai Due con l’evidente scopo di mandare precisi messaggi a chi doveva intendere: “io vado avanti, dopo di me solo il disastro”. Cioè la nazionalizzazione di Mps. Oggi l’82 per cento dei suoi azionisti presenti in assemblea (dunque, non solo la Fondazione con il suo peso specifico del 33%) gli ha risposto: “vai avanti, ma i tempi possono slittare di qualche mese”. “Adelante, con juicio”, avrebbe scritto il nostro Alessandro Manzoni.

Ma come un eroe tragico, Profumo-Riccardo II, non si è scomposto, non è uscito dal personaggio ed ha risposto sprezzante, gettando sale sulle ferite dei senesi: “Oggi – ha detto nella conferenza stampa finale – Siena rischia di sbagliare, come accadde con quella testarda idea di mantenere la Fondazione al 51%”. Poi, nella foga del dopo sconfitta, è caduto in contraddizione sostenendo che si è così aperta la strada all’incertezza di un aumento di capitale che a maggio potrebbe non esserci, pur ammettendo di non sapere ancora da dove sarebbero arrivati i tre miliardi che proponeva di portare in Rocca Salimbeni nelle prossime sei settimane.

Difficile credergli. A meno che il suo intento – forse nemmeno troppo nascosto – non fosse proprio quello di farli arrivare dal pool di banche internazionali che avevano sottoscritto l’aumento di capitale; un mondo, quello delle “grandi banche estere”, definito “sistema criminaloide” dall’economista Marco Vitale su La Repubblica del 27 dicembre, e gravato dal sospetto di un un eccessivo “groviglio” di interessi, poiché alcune delle banche di quel pool sono tra gli esigenti creditori della Fondazione stessa.

Ma lo scontro shakespeariano tra i due protagonisti, forse, ha un’origine molto più lontana. Nell’inverno 2012, la nomina di Fabrizio Viola, direttore generale e poi Amministratore delegato, e l’indicazione di Alessandro Profumo alla presidenza avevano una precisa matrice che si fondeva tra il liberismo duro e puro alla Mario Monti (allora Presidente del Consiglio) e quell’idea di "merchant bank all’italiana" divenuta famosa all’epoca di Massimo D’Alema capo del Governo. Quella delicata operazione – la sostituzione della coppia Vigni&Mussari con Viola&Profumo – fu garantita da Siena dall’allora sindaco Franco Ceccuzzi (basta rileggersi le dichiarazioni dell’epoca) che teneva i rapporti con il partito democratico a livello nazionale. E la svolta fu assicurata. Ceccuzzi, che di quella scelta fece l’emblema del suo governo con la parola d'ordine della “discontinuità”, pagò di persona con le dimissioni forzate da sindaco.

Oggi, però a Palazzo Chigi siede il democratico Enrico Letta che ha idee economiche diverse da quelle di Monti e, sicuramente, preferisce una Rocca Salimbeni nazionalizzata piuttosto che in mani straniere (basti pensare a quanti milioni di titoli di Stato ci sono in pancia Mps), mentre nel Pd da poche settimane lo scettro è saldamente nelle mani di Matteo Renzi (non proprio un dalemiano) che forse fa solo finta di non occuparsi di banche (come ebbe a dichiarare maliziosamente questa estate alla festa democratica di Genova) ma se ne occupa e come. Anzi, la sua attenzione alla galassia Mps, fors'anche per la prossimità geografica al suo centro di gravità fiorentino, data già dall’estate 2012, quando, senza tanto chiasso, il suo "fedele" Alberto Bianchi (presidente della Fondazione Big Bang) fu nominato presidente dei sindaci revisori del collegio sindacale del Consorzio operativo Mps. A Siena, sindaco Valentini, il potere dell'ex Ceccuzzi sembra rimanere ormai confinato entro il recinto dei fedelissimi nel Pd cittadino e in Consiglio Comunale: in entrambi i luoghi si è cercato di far passare un'improbabile posizione “neutralista” tra Banca e Fondazione, forse per non sconfessare Profumo che rappresenta, appunto, quella “discontinuità” che rimane, come il fuoco per Prometeo, l’ultimo frutto della breve vicenda di Ceccuzzi sindaco, ormai sempre più distante dal reale svolgersi degli eventi politici del suo partito.

Tra i nomi papabili per la successione a Riccardo II (Profumo), se decidesse di lasciare, infatti, ha preso a circolare anche quello di quel Francesco Pizzetti a suo tempo bloccato proprio dal veto di Ceccuzzi alla presidenza della Fondazione. Tutta la vicenda – e la determinazione a resistere della presidente Macbeth (Mansi) – andrebbe allora letta in una diversa e nuova prospettiva. Una prospettiva tutta fiorentina.

Nella città di Matteo Renzi, infatti, si celebrano quest'anno i 500 anni de Il Principe. E Shakespeare sarebbe così costretto a lasciare la penna al Machiavelli per scrivere il  finale di questo dramma. Un finale molto diverso da quello che immaginavamo fino a qualche giorno fa.

Ah, s'io fosse fuoco