heyselagimpressCi sono quei pochi scalini da salire, una volta arrivati alla penultima fermata della linea 6, quella di colore azzurro. E poi, giunti in cima, lo sguardo va, in modo naturale, dove deve andare. Con un groppo in gola. Con gli occhi che diventano lucidi.
Sono all’uscita della metropolitana di Bruxelles, fermata Heysel. A sinistra c’è lo stadio oggi intitolato a Re Baldovino. Sono passati 28 anni e poco più di un mese da quel 29 maggio del 1985. Quella sera la mia Juventus giocava un’altra finale di Coppa dei Campioni dopo soli due anni da quella sfortunata di Atene, dove il più debole e sottovalutato Amburgo ci beffò con il diabolico Magath. Ma ora abbiamo la possibilità di rifarci contro quel Liverpool che l’anno prima aveva trafitto ai rigori la Roma, direttamente a domicilio. Ricordo perfettamente quella serata. Con l’ansia di un bambino torno a casa con mio babbo, dopo essere stato come tutti i mercoledì a scuola di musica. In auto parliamo della partita, e di cos’altro potevamo parlare? L’ansia pre-partita stava crescendo. Ma dalla radio apprendiamo che qualcosa non è andato come doveva andare e che anche lo svolgimento della partita sarebbe stato in dubbio. Poco dopo, siamo davanti alla tv, a vedere quelle immagini terribili, di guerra più che di sport, senza capire fino in fondo cosa stava accadendo. In quei momenti un altro bambino di quasi undici anni, esattamente della mia età, si trovava allo stadio proprio nel settore maledetto con suo padre. Insomma, un sogno, per lui, poter vedere la Juve che gioca una finale. Ma quel bambino la partita non l’ha mai vista, ed a casa non c’è più tornato. Così come suo babbo ed altri 37 spettatori, di cui 32 tifosi della Juve. I 39 angeli dell’Heysel.

Sono passati 28 anni, ma sembra un giorno. Una tragedia che nessuno potrà dimenticare, troppo intensa, troppo assurda, anche perché sarebbe potuta accadere a chiunque. Inutile ricordare i fatti e le responsabilità, le sappiamo. In cuor mio da sempre mi sarebbe piaciuto fare una visita allo stadio maledetto; senza un motivo apparente, solo per toccare quei muri dove si è compiuta una delle più crudeli brutalità della storia recente, non solo dello sport. Solo per riflettere. 39 persone che sono morte mentre aspettavano l’inizio di una partita di calcio. Assurdo.
Finalmente sono potuto andare a Bruxelles (per altri motivi), e così il mio viaggio all’Heysel si è compiuto. Chiedo ad un giovane operaio che stava lavorando all’ingresso dello stadio dove fossero la lapide alla memoria e la meridiana che proprio nei giorni scorsi la municipalità di Bruxelles ha deciso di salvare dall’abbattimento dello stadio (e la costruzione di un nuovo impianto nello stesso punto), grazie ad una petizione organizzata da alcuni fantastici tifosi della Juve. L’operaio mi risponde che non lo sapeva. Anche altri due ragazzi che facevano jogging nel perimetro esterno dello stadio non avevano mai saputo che ci fosse la lapide. Mi rendo conto che il Belgio ha voluto dimenticare in fretta questa pagina di vergogna, il nome dello stadio – oggi Re Baldovino – me lo conferma. Arrivo finalmente nel lato dell’ingresso principale e sullo sfondo noto la meridiana. Qualche passante mi guarda stranito, pensa a che cosa ci possa fare con il mazzo di fiori gialli che tengo in mano. Mi dirigo dritto verso la meridiana, ci sono le 39 luci – ovviamente di giorno sono spente – ma nemmeno una targhetta a spiegare che cosa significhi questo anonimo monumento. Qualche metro davanti nel muro dello stadio la famosa lapide, con i nomi dei 39 angeli caduti quel 29 maggio, inaugurata nel ventennale della tragedia dal borgomastro della capitale belga. C’è anche il nome di quel bambino, Andrea Casula, a cui tante volte ho pensato in questi anni. E ci sono tutti gli altri. Mi metto a riflettere, a ripensare alle immagini di quel giorno viste tante volte, ai giornali che ho conservato ed ogni tanto rispolverato. Mi chiedo perché è potuta succedere una cosa del genere. Perché le forze dell’ordine, l’organizzazione della finale e chiunque potesse evitare questa tragedia non ha fatto niente per evitarla. Mi chiedo se fosse stato utile e giusto giocare quella partita. E se i giocatori bianconeri avessero dovuto alzare quella Coppa al cielo. Mi chiedo perché la Juventus, intesa come società, non ha fatto abbastanza per ricordare i fratelli bianconeri morti all’Heysel. Mi chiedo perché persone “normali”, per bene e all’apparenza pacifiche, quando vanno allo stadio e quando parlano di Juve debbano avere questo odio inspiegabile che va oltre lo sport fino a profanare persino la memoria di vittime innocenti. E perché lo sport non debba rimanere tale invece di valicare il confine dell’inciviltà e dell’odio, come nemmeno nelle guerre fatte per motivi più importanti ciò accade? Indossare una maglia del Liverpool con la scritta “meno” e il numero “39” è una vergogna bella e buona;  così come i cori che dopo 28 anni risuonano ancora in alcuni (molti purtroppo) stadi italiani. Ci vuole rispetto qualunque sia il colore calcistico di ognuno. Riesco poi ad entrare dentro lo stadio, e mi orizzonto fino ad arrivare a quello che fu il settore Z. L’emozione è ancora maggiore. Mentre appoggio il mio mazzo di fiori in quella gradinata mi siedo e penso ancora a quelle immagini di sangue e di morte. Guardo il punto dove Zibì Boniek subì il fallo da rigore, la porta dove Michel Platini segnò il gol decisivo dal dischetto. La cabina – anche se oggi trasformata dopo la ristrutturazione dello stadio – dove Scirea lesse la comunicazione che la partita si sarebbe giocata per motivi di sicurezza.
Esco e torno davanti alla lapide ed un giovane padre di famiglia, mi passa vicino, gli chiedo se può farmi una foto e parliamo del mio mazzo di fiori. Si ricorda – mi dice – della tragedia dell’Heysel anche se le sue informazioni sono molto incerte e frammentarie. Gli dico che non ho parenti o amici fra quei 39 morti, ma che sono qui “solo” per ricordare quei tanti fratelli bianconeri, che erano ognuno di noi. Insieme ai fiori anche il biglietto che ho portato a nome di tutti gli amici dello Juventus Club Doc Valdorcia-Valdichiana “Beppe Furino”: In memoriam – 39 angeli sempre nei nostri cuori”. Depongo il mazzo di fiori, è l’ora di ripartire. Dopo qualche passo mi giro indietro, un gruppetto di cinque-sei persone si avvicina a leggere la lapide e il biglietto nei fiori. Ciao Andrea, ciao angeli dell’Heysel, nessuno di noi vi dimenticherà mai.

Un ultimo pensiero è per le loro famiglie, ma anche per Andrea Agnelli e per la società: caro presidente, si può fare di più per ricordare l’Heysel, basterebbe davvero poco e con costi irrisori. Un monumento all’esterno dello Stadium, una sezione nel sito ufficiale, o qualunque altra cosa. La Juventus è tornata a vincere, è un modello sportivo e manageriale, lo deve essere anche di umanità. Non dimentichiamoli, mai.