dylanChe dire di lui? Che era pretenzioso, dissoluto, bugiardo, infedele, inaffidabile. Che si perdeva in fondo ai troppi bicchieri. Che per quanto riuscì a vivere fu sempre lacerato tra la tentazione di una vita normale e una vocazione a distruggersi che quasi sempre ebbe la meglio. Che assegnava un’eccessiva fiducia alle parole e alla loro capacità di giustificare più o meno tutto.
Certo, fu tutto questo, Dylan Thomas. In qualche modo lo diceva lui stesso: «Dentro di me albergano una bestia, un angelo e un pazzo». Ma soprattutto fu un poeta. E fin da bambino, tra i vicoli di Swansea o i pascoli della campagna gallese, coltivò il sogno della poesia.

E si apra pure il dibattito sul potere salvifico della poesia, sulla sua possibilità di riscattare davvero una vita. Il fatto indiscutibile è che Dylan per noi sarà sempre il poeta capace di illuminarci con i suoi versi come lampi nell’oscurità e di restituirci l’intima e divina felicità vitale nascosta nel cuore di tutte le cose.

A distanza di tanti anni è ancora amato, letto, ricercato, citato, con una fedeltà che di solito non appartiene alla letteratura: e ci sarà pure un motivo. O forse più di un motivo, perché certo non può essere solo il fascino del poeta bohemièn, pronto a mandare in frantumi la sua vita.

La sua vita, appunto. Quella che ci racconta splendidamente il suo biografo Paul Ferris in “Dylan Thomas. Essere un poeta e vivere di astuzia e birra” (Mattioli 1885), libro che appassiona come un romanzo e va al cuore del mondo che Dylan popolò con le sue emozioni.

Il vero Thomas – spiega Ferris – si nasconde più in profondità: dietro alle capriole che improvvisava in pubblico. Mi sa che un libro così poteva scriverlo solo uno come Ferris, nato e vissuto a Swansea come Dylan, che ha camminato per le sue strade, bevuto nei suoi pub, consumato il suo tempo a guardare barche in partenza e basse maree.

Mi è piaciuto leggerlo negli stessi giorni in cui girellavo per il Galles, in qualche modo inseguendo anch’io l’ombra di Dylan, nella sua Boat House a Laugharne, come nel museo che gli è stato dedicato a Swansea.

Clown della luna, lo definì Charlie Chaplin. Poeta, poeta comunque, come lui volle sempre essere, come confessò anche in quella riga che poi è divenuto lo splendido sottotitolo di questo libro:

Preferirei in qualunque momento essere un poeta e vivere di astuzia e birra.

A Swansea mi sono imbattutto in una parete con una scritta in lettere bianche su campo nero: More poetry is needed, c’è bisogno di più poesia. E’ ancora Dylan, che qualunque cosa sia stata non smette di parlarci.