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Mosè con i dieci comandamenti (Rembrandt)

Il seguente decalogo, contenente eresie politiche varie rispetto alla dottrina dominante e soggiogante, è vivamente sconsigliato in Italia al politico che vuole vincere elezioni, all’opinionista che ama essere elogiato ed a tutti coloro che non vogliono essere tacciati di impedire all’Italia di andare nel futuro.

1) La spesa pubblica non è il male assoluto, anzi è un bene perché serve ad aiutare, attraverso servizi, stato sociale, investimenti, chi ha meno. È solidarietà. Certo, non serve alle classi più abbienti, che potendo comprare sul mercato ciò che serve loro senza l’aiuto dello Stato, storicamente rivendicano il taglio della spesa pubblica allo scopo di ottenere la riduzione di quelle tasse che vorrebbero non pagare, nonostante pagarle sia il loro contributo per migliorare la qualità di vita di chi ha più bisogno. Il male sono gli sprechi e le inefficienze, non la spesa pubblica di per sé.

2) Il pareggio di bilancio in Costituzione non è il bene assoluto, soprattutto se inteso come principio del “spendo solo ciò che ho adesso”. Lo stesso principio trasferito sulle famiglie comporterebbe che la maggioranza degli italiani non potrebbe comprarsi né la macchina, né la casa, perché l’unico modo che hanno per farlo è indebitandosi, spendendo appunto oggi i loro guadagni futuri. Spendere solo ciò che si ha nell’immediato è un principio che può andare bene per chi può contare su consistenti disponibilità già in suo possesso. Così vale per la cosa pubblica, dove se si vuole garantire uno stato sociale in aiuto dei più poveri, o investimenti per costruire servizi pubblici, non si possono impiegare  le sole risorse che si hanno oggi in mano, soprattutto quando l’economia non va bene, ma programmare un indebitamento in maniera oculata. Fare il passo più lungo della gamba è semmai il problema, ma d’altronde come in ogni famiglia.

3) Non si deve misurare l’efficienza delle società che erogano servizi pubblici, e dei loro amministratori, dagli utili che producono. Primo perché quegli utili li producono sulla testa dei cittadini attraverso le tariffe pagate per servizi essenziali. Secondo perché gli utili si fanno soprattutto fornendo servizi quando e dove conviene, e invece tutti hanno diritto di usufruirne paritariamente, anche coloro che abitano in luoghi dove non è conveniente, dove è diseconomico fornirli. Dunque se la mano pubblica si trova ad intervenire per coprire le spese dei servizi diseconomici, cioè per garantire l’accesso ai servizi a tutti coloro che ne hanno diritto per Costituzione, traendo le risorse dalla fiscalità generale, non accade niente di sbagliato.

4) Non è vero che meno politici circolano per la Penisola e meglio è. Perché fare politica significa partecipare alla cosa pubblica, e la partecipazione, in nome di un sano principio democratico, va promossa, incentivata, incrementata. Fare il parlamentare, il consigliere regionale, provinciale, Il Sindaco, il consigliere comunale o di circoscrizione, significa partecipare alla vita democratica. Non è un obiettivo virtuoso diminuire il numero di coloro che si occupano di politica nel Paese, tagliando poltrone, perché significa tagliare partecipazione democratica. Ciò che non va bene sono i privilegi, le indennità di importo eccessivo, le spese non giustificate. Non è il numero delle poltrone il male, visto che alcune sono anche molto scomode e andrebbe semmai ringraziato chi le occupa, ma il loro costo quando non è giustificato.

5) Non è vero che i politici devono essere come noi. Noi cittadini mediamente non siamo un gran che nella vita pubblica, riconosciamolo. I politici devono essere i migliori e i più preparati tra noi, quelli che emergono dalla folla, per consenso certo, ma un consenso fondato sul riconoscimento di doti e capacità personali peculiari. Non è l’immedesimazione il valore che conta, non è il pensare “quello è uno di noi” che fa la differenza, in un corto circuito di alibi reciproci, più o meno inconsci, tra governanti e governati sulle proprie mancanze. Bensì è il riconoscimento di competenze e preparazione tali da meritare la nostra delega di rappresentanza a dover essere determinante; unito da un lato all’umiltà di accettare, e dall’altro alla fermezza di pretendere, la presenza nei nostri rappresentanti di qualità umane e intellettuali al di sopra della media.

6) I corpi intermedi – partiti, associazioni, sindacati – non sono per loro natura inutili e dannosi, perché servono a collegare i cittadini alle istituzioni, sono il ponte tra le masse ed il governo, e dunque lo strumento attraverso il quale dalle masse indistinte emergono cittadini consapevoli. Sono i populisti e i demagoghi che non vogliono niente nel mezzo tra loro e le masse da manipolare con la propaganda. Il problema è l’inadeguatezza dei corpi intermedi, non la loro esistenza.

7) Non è vero che l’attività politica non vada opportunamente pagata anche ai livelli più bassi. Perché se la politica diventa tutta volontariato, finiscono per poterla fare solo le classi più agiate, visto che spesso è un impegno incompatibile con quello lavorativo personale. Avere in molti casi ridotto al nulla le indennità di eletti in piccole realtà locali è stato un grave errore. Le indennità non devono essere vissute come una colpa, perché esse rappresentano la garanzia che tutti possano partecipare alla vita politica, non sono denaro rubato alla comunità. Sono i giusti costi della democrazia.

8) Non è vero che la cosa più importante sia fare velocemente le leggi. Le leggi vanno fatte bene, ragionando, con i tempi dovuti e con la partecipazione di tante intelligenze. Perché per un democratico non solo è cosa giusta che più persone possibili partecipino ad assumere le decisioni politiche, ma egli crede anche che una decisione assunta da più menti sarà migliore di una presa da poche. Questo per i democratici ovviamente.

9) Non è vero che la burocrazia sia la peggiore delle iatture. Perché le leggi per essere uguali per tutti devono essere anche applicate in maniera uguale per tutti, nell’ambito di limiti e procedimenti. E le procedure autorizzative, nella loro universalità e imparzialità, sono una garanzia di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Quando non ci sono regole, e non ci sono le conseguenti procedure per renderle effettive e persone a vigilare sul loro rispetto, ad avere la meglio sono sempre i più forti e i più ricchi. Gli eccessi della burocrazia sono invece un male, la sua autoreferenzialità, la sua eventuale incapacità di dare risposte adeguate nei tempi dovuti.

10) La “semplicità” non è un valore di per sé. Perché la realtà sociale è complessa, tanto complessa. Tentare di ridurla a pochi schemi precostituiti non porta mai a nulla di buono, nella maggioranza dei casi conduce all’approssimazione. Anche le istituzioni pubbliche sono complesse, articolate, di difficile gestione, diverse tra loro quanto sono diverse le realtà del Paese. L’accuratezza, la ponderazione, la precisione delle interpretazioni e delle decisioni, la prudenza del riconoscimento dei limiti interpretativi, sono valori. Non bisogna illudere i cittadini offrendo loro la semplicità come chiave di lettura, non è giusto adagiarli nell’idea che ciò che non comprendono è sbagliato in quanto risulta loro inaccessibile. Dobbiamo educarci alla complessità, acquisire gli strumenti per rendercela intelligibile, seguire percorsi di consapevolezza, non accontentarci di una rappresentazione immediatamente fruibile, ma conseguentemente povera, di ciò che circonda. L’Italia difficile, complessa articolata è l’Italia vera, quella semplice è puro esercizio di fantasia.