All’indomani della svolta storica che vede la decisione della Fondazione MPS di scendere sotto la soglia della maggioranza assoluta di Banca MPS (leggi), ospitiamo il commento di Roberto Barzanti, già sindaco di Siena e vicepresidente del Parlamento Europeo, pubblicato quest’oggi sul Corriere Fiorentino. 

La decisione della Fondazione Monte dei Paschi di cedere “una quota della partecipazione alla banca conferitaria fino a una massimo del 15% del capitale” non è una svolta da accogliere con inutili drammatizzazioni. Ne consegue, semmai, un mutamento di rapporti da capire senza indugi. È stata decisione di certo molto sofferta, presa con necessitata saggezza e con qualche evidente ritardo. Occorrerà procedere più spediti e convinti nella costruzione di una “governance” nuova, policentrica e equilibrata, tra enti territoriali – Comune in testa –, Fondazione e Banca, mettendo da parte logiche in prevalenza difensive o consolatorie illusioni. A Siena le prospettive che discendevano dalla legge Amato del 1990 hanno dato luogo – si sa – ad un tormentato dibattito.

Era difficile far accettare a cuor leggero che la prima banca pubblica sorta nell’Europa comunale, legata per acquisiti diritti e lunga consuetudine in mille guise alla città che la vide nascere, fosse spinta, allentando vincoli e controlli, ad affrontare le tempeste di un mercato quanto mai incerto e pieno di insidie. L’esigenza di separare le attività propriamente bancarie dall’erogazione degli utili di bilancio a sostegno del territorio di pertinenza (e oltre) era avvertita da anni. La  Fondazione da inventare avrebbe programmato l’assegnazione delle somme assegnatele dalla banca per il conseguimento dei fini di utilità sociale. Il Comune, e la Provincia non avrebbero più designato  la parte maggioritaria della Deputazione dell’istituto, ma in compenso acquisivano, tramite la scelta del ceto dirigente della Fondazione, un peso ancora più marcato e garanzie non effimere di raccordo.

Come mettere questa prospettiva al riparo da ogni rischio? La risposta a lungo data è stata la più ovvia e contabile: far sì che la Fondazione avesse nel suo portafoglio la maggioranza delle azioni della banca. Ecco quella che in molti hanno considerato inammissibile anomalia e altri si sono incaponiti a ritenere il mezzo principe per evitare che il protettivo Monte diventato S.p.a. prendesse il largo. Nessuno, beninteso, metteva in gioco l’autonomia che avrebbe dovuto animare centri di potere tanto diversi per natura giuridica, modalità operative e ambiti di riferimento, ma rimaneva sottinteso un grosso timore. Più che far propri in tutti i loro effetti i nuovi indirizzi si è cercato spesso di arginare la portata delle innovazioni.

A Siena c’è sempre stata diffidenza verso i processi di modernizzazione. Rallentare i tempi è stata la regola. E nessuna forza politica può vantare una particolare preveggenza. La banca si trova in una condizione non facile, esposta ai venti del finanzcapitalismo e ai diktat delle autorità europee, immersa in un mercato più che turbolento. Scendere al fatidico 33,5% da parte della Fondazione non significherà abbandonarla al suo destino. È un passaggio realistico e salutare, se indurrà a definire – e praticare – una “governance”, che di ogni sede esalti autonomia e responsabilità.

Pubblicato sul Corriere Fiorentino del 15 febbraio 2012