Ti riassumo la storia prima di raccontartela: un uomo che sa scrivere uccide un arabo che quel giorno non ha neppure un nome – quasi l’avesse lasciato appeso a un chiodo prima di entrare in scena – e poi comincia a spiegare che è tutta colpa di un Dio che non esiste….
Ecco, si può mettere anche in questo modo, sacrosanto, solo che, almeno a me, non era venuto mai a mente. Anni di letture travagliate e macerazioni esistenzialiste andando dietro al grande Albert Camus – senz’altro più autentico dell’altro, Jean Paul Sartre – e al suo Straniero. Anni andati dietro a fantasticare su quei giorni in Algeria fino quasi a immedesimarsi in quel uomo – Mersault – che ammazza un arabo sulla spiaggia, senza nessun motivo apparente nè emozione: in scena solo l’indifferenza del mondo, la condizione dell’assurdo.
Mai una volta che abbia indugiato sul povero arabo: dettaglio secondario. Semplicemente la trama lo reclamava. Non a caso di lui, nel romanzo di Camus, non c’è nemmeno il nome.
Ed ecco il risarcimento, se possibile, molti e molti anni dopo. Ecco l’altro punto di vista. E’ nel libro del giornalista e scrittore algerino Kamel Daoud, che per l’appunto si chiama “Il caso Mersault” (Bompiani). A prendere la parola è il fratello dell’ammazzato, un uomo che ha imparato a scrivere in francese: per parlare al posto di un morto, per continuare un po’ le sue frasi.
La stessa storia, un’altra storia: che si riappropria di un nome, che restituisce il senso di una vita a un povero analfabeta che sembrava nato solo perché si prendesse un proiettile in corpo.
Si capiva tutto già dall’inizio: lui aveva il nome di un uomo, mio fratello quello di un imprevisto.
Fino al miracolo della scrittura. Al riscatto della parola.