Senesino
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Senesino

L’usanza era decisamente crudele. Scoperto un bambino che eccellesse nel canto con la sua voce angelica, prima della pubertà veniva castrato, così che, ridotto a una sorta di “macchina per cantare” potesse essere impiegato, anche da adulto, in opere e composizioni musicali. Fu una pratica prevalentemente italiana che si protrasse fino agli inizi del XX secolo, quando venne dichiarata illegale. Gli evirati, detti anche “quarta voce” (dopo, cioè, le voci bianche, maschili e femminili) trovarono la loro massima popolarità nell’opera lirica settecentesca. Bene si prestavano, infatti, a rappresentare personaggi irreali e idealizzati, presi dalla mitologia o da una storia lontana (come, ad esempio, quella romana). Qualcuno di essi divenne un vero divo celebrato nei teatri di tutta Europa, come accadde a Francesco Bernardi detto ‘Senesino’, figlio di un barbiere, nato a Siena nel 1686 (quest’anno ricorrono 330 anni dalla nascita).

La sua celebrità oltrepassò i confini italiani, tanto che – inevitabile il prurito di una morbosa curiosità – i viaggiatori stranieri che transitavano da Siena registravano sul proprio diario l’eccezionale circostanza di averlo potuto incontrare o vedere solo di sfuggita. Non erano da meno i concittadini, quando si davano di gomito se notavano per strada il Bernardi. Peraltro era difficile non notarlo, considerato il suo enorme fisico (un omone) che contrastava quanto mai con il registro esile della voce.

Una carriera precoce Le doti canore del figlioletto del barbiere si rivelarono nel 1695, quando, a nove anni, entrò a far parte del coro della Cattedrale. Appena tredicenne venne castrato, proseguì nello studio del canto e, intorno ai vent’anni, fece i suoi primi esordi nei Teatri di Roma e Venezia. La critica sottolineò subito la sua recitazione impacciata (dovuta soprattutto al fisico imponente) che tuttavia trovava riscatto nelle qualità della voce. Di una esibizione fatta a Napoli nel 1715, l’impresario teatrale Zambeccari disse: «Senesino continua a muoversi sulla scena piuttosto male; sta ritto come una statua e quando per caso fa qualche gesto, sceglie proprio l’opposto a quel che ci vorrebbe». Ma pare che la stroncatura dello Zambeccari fosse stata così impietosa perché non era riuscito nell’intento di mettere sotto contratto il cantante senese. Qualche anno dopo il compositore Johann Joachim Quantz, che lo aveva ascoltato a Dresda nel “Teofane” di Lotti, avrebbe formulato sul Senesino un giudizio di tal fatta: «Una potente, chiara, uniforme e dolce voce di contralto, con un’intonazione perfetta e un vibrato eccellente. Il suo modo di cantare era ammirevole e la sua elocuzione impareggiabile». E a proposito della recitazione poco disinvolta badava a precisare che la sua “figura imponente e maestosa lo rendeva più adatto alla parte dell’eroe che a quella dell’innamorato”. Certo era che quella corporatura da orco continuamente smentito dalla voce non aiutava certo la tenuta in scena. Basti vedere una stampa d’epoca del “Flavio” di Händel, in cui la caricatura del Bernardi sovrasta la soprano Francesca Cuzzoni e l’altro castrato Gaetano Berenstadt.

La fama di Francesco Bernardi aveva comunque raggiunto una dimensione europea. Nel 1717 si era ritrovato, appunto, al servizio della corte di Dresda (importante centro europeo di opera ‘italiana’) con un contratto da primo sopranista e uno stipendio di 7.000 talleri. A seguito di un diverbio con il compositore di corte Johann Heinichen (“rozzo colpo da virtuoso”, fu definita la reazione del Bernardi) dette le dimissioni, ma fu subito scritturato da George Frederich Händel, che proprio alla corte di Sassonia aveva avuto modo di ascoltarlo. Händel stava cercando cantanti italiani per la Royal Academy of Music di Londra ed era rimasto favorevolmente colpito dal Senesino che, dunque, si affrettò ad ingaggiare con uno stipendio iniziale di 500 sterline per stagione. Cifra che, si dice, giunse fino a 3.000 ghinee all’anno.

Colto e ricco Persona di cultura, raffinato collezionista d’arte e di rarità librarie, il Bernardi restò a Londra per sedici anni, frequentando esponenti dell’alta società e stringendo amicizia con personalità quali il duca di Chandos, Lord Burlington, il pittore William Kent. Nonostante avesse cantato in una ventina di opere händeliane, i rapporti con il compositore inglese furono sempre molto burrascosi. L’apice dei contrasti si raggiunse allorché, nel 1733, Senesino in dispregio ad Händel, passò alla concorrenza, andando a cantare all’Opera della Nobiltà. Qui avvenne l’incontro artistico con l’ancora più celebre evirato della storia della musica, Farinelli, nella rappresentazione di “Artaserse”, dramma per musica in tre atti di Pietro Metastasio. Esiste in proposito un gustoso aneddoto narrato dal musicologo Charles Burney: «Senesino aveva la parte di un crudele tiranno, e Farinelli quella di uno sfortunato eroe in catene; ma, nel corso della prima aria, il prigioniero intenerì a tal punto il cuore del tiranno con il suo canto, che Senesino, dimentico del suo personaggio, corse verso Farinelli e lo abbracciò».

Francesco Bernardi abbandonò definitivamente le nebbie londinesi nel 1736. Rientrò in Italia e nel 1740 concluse la sua carriera cantando al Teatro San Carlo di Napoli ne “Il trionfo di Camillo” di Nicola Porpora. La stagione dei castrati già stava volgendo al declino, quel modo di cantare era ritenuto ormai superato. Il Senesino – è proprio il caso di dirlo – non ne fece un dramma. Aveva accumulato sufficiente denaro per vivere da signore. Tornò a Siena stabilendosi in una lussuosa casa, completamente arredata in stile inglese, con un servitore di colore, una scimmia e un pappagallo. Visse il resto dei suoi giorni da eccentrico e in perenne disputa con i parenti. Ne seppe qualcosa il nipote Giuseppe che per ottenere l’eredità dovette sottostare a tutte le bizze e alle acutissime grida dello zio.