Amaro destino quello della destra italiana in epoca repubblicana.
Relegata per oltre quarant’anni fuori dall’arco costituzionale, pur se con una qualche rappresentanza sostanziale nella Democrazia Cristiana, dopo la caduta del Muro di Berlino e con l’accelerazione impressa alla trasformazione del quadro politico nazionale da Tangentopoli, sembrava destinata a ritagliarsi finalmente un proprio spazio culturale, politico e programmatico.
Roba normale per Paesi normali, dove c’è sempre una destra e c’è sempre una sinistra, variamente declinate nel tempo e nello spazio, ma entrambe presenti con una loro fisionomia e democraticamente legittimate.
E invece dopo che quel potenziale spazio culturale – se per esso intendiamo qualcosa che trova nella società un riscontro di un certo rilievo in termini di influenza nelle coscienze e negli universi simbolici dei cittadini – è stato occupato da quella così tanto invasiva e pervasiva way of life di stampo berlusconiano, fatta di edonismo allo stato puro intrecciato con una concezione patrimonialistica della cosa pubblica, ora anche lo spazio politico e programmatico è sempre più occupato dal PD in versione “partito della nazione” in fieri.
Se guardiamo ad un tema economico come il mercato del lavoro, difficile trovare uno spazio a destra quando sul piatto hai una riforma come quella del jobs act che soddisfa il sogno storico della libertà di licenziamento coltivato dalle destre padronali italiane. Una riforma che muove dal principio che datore di lavoro e lavoratore abbiano la stessa forza contrattuale, tipico ragionamento da visione iperliberistica del mercato del lavoro (“se il lavoratore fa il suo dovere non ha nulla da temere”) e sconfessione dei principi ispiratori dello statuto dei lavoratori. Riforma che parte dal presupposto che il lavoratore se non lo controlli, magari con apparati elettronici, sia potenzialmente inefficiente, e che comunque debba soggiacere alla volontà del datore di lavoro che può nel caso anche destinarlo a mansione inferiore a quella per svolgere la quale è stato assunto.
Oppure come trovare una collocazione autonoma a destra quando anche il tema dell’abbassamento delle tasse ti viene sottratto dal fronte avversario, ma non tanto come condivisione dell’esigenza di una certa politica fiscale in un dato momento storico, bensì proprio nella sostanza della rappresentanza degli interessi di categoria, ceto e classe? Il problema non è infatti che il governo a guida PD si adoperi per abbassarle, perché di per sé non è certo questa una prerogativa necessariamente di destra, ma che lo faccia selezionando quelle sui patrimoni (Imu) e sugli utili di impresa (Ires). Agevolando dunque le rendite e sostenendo l’aumento dei profitti a sostanziale parità di crescita economica (visto che l’Ires la pagano solo le aziende che producono profitti), e non aiutando i lavoratori e le imprese in perdita (che già non pagano Ires) come si sarebbe invece fatto abbassando le tasse sul lavoro, e come avrebbe dunque suggerito un’interpretazione a sinistra del tema della riduzione delle tasse.
Come può la destra trovare un suo spazio proprio se la deregolamentazione, magari mascherata da semplificazione, il lassez-faire, lo sciogliere lacci e lacciuoli, l’idea che le regole e il controllo statale siano un freno allo sviluppo economico, vengono assunti come basi valoriali dal proprio avversario per costruire leggi come lo Sblocca Italia o introdurre principi come il silenzio assenso sulle autorizzazioni ambientali?
Ma lo stesso dicasi per quella rappresentazione dello Stato come soggetto comunque vessatorio nel momento in cui esige dai cittadini il pagamento delle tasse, nell’idea più o meno esplicita, e da sempre invalsa nella destra, che tale richiesta rappresenti alla fine una sorta di furto compiuto ai danni del cittadino suo malgrado contribuente. Visione che nell’incremento dei limiti per i pagamenti in contanti e nell’innalzamento della soglia di punibilità dei reati fiscali decisi dal Governo ha trovato una sua coerente concretizzazione.
Per finire con quel perfetto rapporto di continuità con cui il PD ha preso in mano il testimone della destra nella concezione aziendalistica della cosa pubblica: servizi pubblici che diventano prodotti da mettere sul mercato, riorganizzazioni fatte alla stregua di ristrutturazioni aziendali, manager delle società partecipate che erogano servizi pubblici premiati finanziariamente se producono profitti traendoli dalle tariffe applicate ai cittadini, e cittadini che diventano dunque clienti a tutti gli effetti.
Cosa potrebbe oggi promettere un nuovo leader emergente di una destra liberista e produttivitista che non abbia già fatto il Governo Renzi?
Cosa rimane programmaticamente alla destra italiana in un contesto siffatto in cui gli avversari si mettono a fare improvvisamente il suo mestiere?
Alla destra italiana per il momento rimane il “salvinismo”. Cioè rimane affidarsi agli spazi che il ledaer della Lega Matteo Salvini le ritaglia prendendo alcuni temi classici della destra e facendosene una felpa che calzi a pennello nel corpaccione demagogico, populista e un po’ xenofobo di una certa opinione pubblica italiana. Come con gli strali contro gli immigrati, le ruspe minacciate nei campi rom, la difesa della cultura italiana incarnata nel presepe che ha ormai spodestato le vecchie icone celtiche, e con il “law and order”, che nella versione leghista diventa una sorta di mantra da cowboy italico sborone impegnato in un improbabile mezzogiorno (in famiglia) di fuoco a declamare l’ormai famoso “se entri a casa mia esci steso”.
Oppure le rimane di salire sul palco del Family Day, con i propri esponenti che si ergono a difensori della famiglia tradizionale, spesso però non potendo unire alla forza retorica delle parole quella esemplare della propria vita familiare, che difficilmente assume i caratteri della “tradizionalità”, come d’altronde è normale che sia in una società ormai trasformata nelle sue connotazioni di base.
Insomma una destra di nuovo apparentemente ai margini, anche se ultimamente l’Italia è una nazione che, in quanto a sorprese politiche, “margini” sembra non averne più, visto che nelle urne tutto sembra poter succedere.
Una destra messa ai margini dal PD che gli ha tolto di fatto la terra da sotto i piedi. Poi lasciamo stare che invece alla sinistra ha tolto anche i piedi, perché quello è tutto un altro capitolo.