Un mondo intero, una missione, una storia, possono cadere definitivamente sotto il peso di una singola frase. Una frase che magari è solo l’ultima infinitesimale parte di un gravame più grande, già presente, ma che fa crollare all’improvviso tutta l’impalcatura. Tutto è in realtà già accaduto, già detto e già previsto. Ma solo quando arriva quell’ultimo colpetto, quelle poche definitive parole, ti accorgi che non c’è più possibilità di appello, che ciò che era, ora non è più.
Non è tanto il peso concreto dell’evento specifico a rilevare, quanto l’enorme valore simbolico che esso porta con sé.
Quando il Segretario Nazionale del PD, nonché Presidente del Consiglio, al Tg1 davanti a milioni di italiani afferma che una legge, nello specifico quella che ha introdotto in Italia il reato di immigrazione clandestina, è inutile, non serve, anzi andrebbe cancellata perché crea allo Stato più problemi che soluzioni, ma che per il momento non lo si farà perché c’è un “problema di percezione” da parte dei cittadini, perché i cittadini insomma non capirebbero, senti tutto un universo ideale che ti sprofonda sotto i piedi.
La sinistra che voleva cambiare il mondo, trasformare alla base la società, che sorgeva dai valori dell’illuminismo, della ragione contro la superstizione, della lotta alle false coscienze, adesso si genuflette di fronte alle false “percezioni” dell’italiano medio, e lo fa legittimandole pubblicamente come tali e attribuendo ad esse uno stato di superiorità rispetto all’oggettività dei fatti.
Proprio in quel “pubblicamente” sta la rottura con una vocazione politica. Perché qui non si tratta di quel mal celato opportunismo che, volenti o nolenti, spesso caratterizza le decisioni politiche. Non si tratta di un “vorrei, ma non posso” nascosto dal velo di ipocrisia di qualche motivazione ufficiale che parli d’altro e che lasci dunque la falsa percezione ad un livello di inferiorità intellettuale. Non è solo spicciolo opportunismo insomma, né tantomeno realismo politico.
Perché in quel caso permane comunque un doppio livello comunicativo che, se pur non sempre nobilmente, risponde al pudore di non mostrare ciò che non dovrebbe essere. Qui c’è invece l’ostentazione. Qui non si vuole celare niente. La falsa percezione, la presunta incapacità di comprensione della realtà da parte degli italiani, viene fatta assurgere, in maniera manifesta, a fattore che prevale nella determinazione della scelta politica.
Non è tanto la paura di essere impopolari, e la conseguente ritrosia nell’adottare provvedimenti che possono rendere tali, a sconvolgere il paradigma. È la legittimazione esplicita, pubblica, di questo processo decisionale appena descritto che cambia tutto, che ribalta specularmente lo schema.
Riconoscere pubblicamente che si sta compiendo una scelta dannosa per il Paese adducendo la motivazione che gli italiani non sarebbero in grado di comprendere, per un difetto di percezione, la bontà oggettiva della scelta opposta, segna la deresponsabilizzazione assoluta della politica, che è poi abdicare alla sua funzione peculiare.
Una politica che svuota consapevolmente la rappresentanza di qualsiasi connotato di competenza, conoscenza, capacità di lettura della realtà che può conferirgli il rappresentante, riempiendola solo dell’opinione dominante dei rappresentati. Opinione della quale tra l’altro nel contempo riconosce l’erroneità, senza che tale riconoscimento comporti nessuna assunzione di responsabilità, nessun caricarsi di un compito specifico.
Ma svuota la rappresentanza anche anche di qualsiasi compito di educazione, trasmissione di valori, convincimento, lasciando in essa solo la dimensione passiva di ricezione delle istanze più popolari, e della loro traduzione in normazione, oppure come in questo caso, in omissione. Rinunciando alla parte attiva, creativa, intellettuale e allo stesso tempo volontaristica della rappresentanza.
Se ciò è un problema per la politica in quanto tale, perché la rende inutile e sostituibile da una società di sondaggi e da una burocrazia che traduca quei sondaggi in legge, per la sinistra è la catastrofe.
Quella sinistra che da speranza di emancipazione dei popoli, da orizzonte di riscossa degli ultimi, diventa strumento tecnico, asettico e passivo, in balia degli istinti e delle paure delle masse.
Anche, nel caso, per fare male a se stesse.