«Avanzò al centro della stanza, per fare spazio alla sua idea di se stesso».
«Lei attese con pazienza che tornasse dopo essersi fatto un giro intorno al suo senso di colpa».
«Possiedo un’assenza affascinante, aveva detto»
«A volte ho perso ai punti boxando da solo».
Difficile lasciarsi dietro una delle pagine di William McIlvanney senza trovare almeno una frase potente e spiazzante come quelle che vi ho trascritto qui sopra. Di questo autore, figlio di un minatore scozzese e insegnante di letteratura a Glasgow non avevo mai letto niente. Anzi, diciamo pure che non avevo mai sentito parlare, nonostante i suoi lavori più fortunati risalgano ormai a una quarantina di anno fa. Si tratta della trilogia dedicata all’ispettore Jack Laidlaw, verso la quale hanno un enorme debito di gratitudine anche autori come Ian Rankin e Irvine Welsh.
Beh, se ho comprato “Come cerchi nell’acqua” (Feltrinelli) e l’altra sera ne ho attacco la lettura è stato solo per la quarta di copertina che mi prometteva una storia ambientata nelle squallide periferie di Glasgow, tra sordidi pub e locali ancora più equivoci.
C’è voluto assai poco per lasciarmi conquistare. Il primo paragrafo, la prima pagina, poi avanti. Non per una trama mozzafiato, che tale non è, anzi. Ma per la scrittura rara, soprattutto nei paraggi del noir. E per questo personaggio così particolare, questo ispettore che è battitore libero e pecora nera, animato da una forte idea di giustizia e allo stesso tempo abbondantemente disincantato, capace di riconoscere un’umanità anche nel più temibile dei gangster e consapevole che un’inchiesta è in primo luogo un’inchiesta su se stessi.
Uno, per dire, che nel cassetto nascoste le bottiglie, ma anche i libri di Camus e dei filosofi dell’esistenzialismo. E si vede, anzi, si legge. Merita.