penna-e-calamaioLa letteratura è conoscenza, viaggio, emozioni, scoperta di se stessi, degli altri e del mondo. Ne troveremo conferme anche in questa rubrica che, settimanalmente, proporrà frammenti d’autore. Un piccolo “manuale d’uso” per i nostri giorni comuni e, soprattutto, per i sentimenti che dentro quei giorni abitano.

Carmen Pellegrino ha inventato una scienza, o per meglio dire una poetica. Quella dell’abbandonologia, cioè dei luoghi abbandonati e dei fantasmi che in essi si aggirano. Il romanzo “Cade la terra” è un piccolo capolavoro. Dentro un borgo ormai in disfacimento Estella vorrebbe dare ai morti nuova vita e diversi destini. Del resto ciascuno di noi conserva nel proprio intimo luoghi che il tempo inesorabilmente ha corrotto, dove i rovi assediano memoria e pietre. E coloro che ne furono abitanti sembrano chiederci un supplemento d’esistenza, una seconda possibilità.

Ci sarà tepore nella stanza e odore di cibi fritti. Verranno tutti, con i vestiti della festa, le scarpe rinfrescate da una spazzolata. Arriveranno alle nove e, l’uno dopo l’altro, prenderanno posto intorno alla tavola. Non porteranno regali, non lo fanno mai, ma non importa: ne ho preparati io per loro, davanti ai quali spalancheranno gli occhi, ma io guarderò altrove. Entrando non si saluteranno, né saluteranno me, ma a poco a poco prenderanno confidenza con le sedie impagliate di fresco, con la tovaglia di macramè che uso solo una volta all’anno. Si guarderanno intorno scrutando la casa silenziosa; quindi cederanno all’impulso di annusare l’aria e aggrotteranno le sopracciglia: non sono venuti per mangiare, ma allora perché sono qui? Dopodiché si metteranno a sedere e aspetteranno. Io porterò in tavola ravioli di ricotta, poi fagotti di castagne che quest’anno son venuti meglio, infine fichi secchi che con cura ho riempito di noci. Per l’occasione ho indossato il mio vestito della festa, un abito di velluto alla moda… va bene, va bene, la moda di cento anni fa. Quest’anno però avrò una finezza in più. Nelle prime sere d’autunno ho infatti ripreso i lavori all’uncinetto e ho creato un colletto bianco che ho poi fissato con qualche punto nascosto. Avendo filo in abbondanza, ne ho fatto anche uno piccolo, minuscolo proprio, a cui ho appeso un campanellino dal suono lieve, di contorno: starebbe benissimo al mio gatto, se avessi un gatto. Invece ho un cane, Gedeone, che là fuori piagnucola senza sosta. Ogni anno, quasi all’ora della cena, comincia a fare gli occhi lacrimosi e a lamentarsi, tagliando il silenzio a cui sono abituata. Dovrò dirgli di smetterla, non può infastidirmi così, come un vento di fiume, un vento di presagi, e poi lo sappiamo entrambi che gli basterà vederli per acquietarsi. Nei giorni scorsi ho preparato la stanza, facendo un po’ d’ordine nell’incuria. Ho lucidato la vecchia credenza, che si è sgranchita dal torpore con un gemito simile al vetro quando si frantuma, e ora mi pare maestosa, imponente. La nicchia di ferraglia, invece, si è contratta come infastidita quando le ho infilato dentro il ritratto di mia madre: una volta all’anno, che lo voglia o no, deve tenerselo. Nel mezzo della parete che dà sulla piazza la finestra ha ancora la grata di ferro, anche se la ruggine l’ha mangiata dall’interno come fanno i vermi con le pance dei bambini. Per ora ne mantengo aperti gli scuri, ma poi dovrò socchiuderli, anche se i miei ospiti ne rimarranno offesi e mi guarderanno storto perché la finestra è l’unico spiraglio sull’olmo. Tuttavia sono costretta a farlo: se gli scuri sono accostati non vedono la loro figura riflessa nel vetro e non si mettono a tremare. Nelle altre stanze non vanno mai. E poi sono chiuse, le persiane cadute, le sedie coperte di pietre. Di quando in quando, appena intimoriti dai piccoli schianti, si lanceranno occhiate; poi mi guarderanno commiserandomi, io farò altrettanto con loro, ma nella contesa degli sguardi sarò io a soccombere. Qualche ora fa sono salita al borgo nuovo per invitare a cena Marcello, ma al solito non sembrava ascoltarmi quando da giù gli ho gridato di unirsi a noi, che saremmo stati bene, che avremmo mangiato e chiacchierato. Mi ha salutato con un gesto di offesa dai vetri della finestra. So, comunque, che prima ci guarderà da quei vetri macchiati di ditate, poi si presenterà senza annunciarsi, dicendo «Eccomi qui di nuovo» con la sua voce di pappagallo.

 

[da Cade la terra di Carmen Pellegrino]