Da 20 anni (1995-2015) Siena fa parte della world heritage list dell’Unesco. Un riconosciuto merito alla città per come essa abbia saputo conservare, nel tempo, importanti caratteristiche della sua struttura medievale, definita dalla stessa organizzazione internazionale «capolavoro di dedizione e inventiva in cui gli edifici sono stati disegnati per essere adattati all’intero disegno della struttura urbana». Certo, per essere accreditata come tale, Siena non aveva bisogno dell’Unesco. Tuttavia essere dichiarata “patrimonio dell’umanità” aggiunge qualcosa che va ben oltre la medaglia indossata sul petto del patrio orgoglio. Il riconoscimento, infatti, diventa più che altro responsabilità – giustappunto dinanzi al mondo – che impegna l’intera città a conservare (a condividere con l’umanità) il proprio passato di pietre, di arte, di armonie architettoniche. Ma anche e soprattutto a far sì che tutto questo possa tramandarsi non soltanto come testimonianza di inerme, trascorsa bellezza. Occorre, cioè, la capacità di mantenere, reinventare, reinterpretare nell’oggi lo spirito, il senso civico, l’ambizione che generò Siena quale ci è stata consegnata. Impresa non semplice. Perché sfida a saper coniugare la chiusa, autosufficiente compiutezza suggerita dalla sua struttura urbanistica (molto spesso mentale) con un’apertura… extra moenia (ed anche in tal caso la cortina che discrimina un ‘al di qua’ e un ‘oltre’ non è certo questione di soli mattoni).
E’ l’ambigua dialettica tra apertura e chiusura, oggi quanto mai attuale e drammatica su scala planetaria. E tale contrapposizione sembra quasi assumere una sua allegoria proprio nell’immagine di una città come Siena. Perché la chiusura è rassicurante, protettiva; è garanzia identitaria, rende facile essere comunità. L’apertura, invece, genera spaesamento, traffico di gente, indistinzione. Cosi che viene da chiedersi se non sia meglio vivere in uno spazio (fisico e mentale) ben delimitato (una città-dimora) dove “ci si conosce tutti”, le relazioni sociali sono protette e perciò gratificanti. O arrischiarsi, invece, dentro una con/fusione di persone, lingue, idee, diversità che obbligano al confronto.
Massimo Cacciari, nel libro “La città”, affronta questo dilemma (ne fece cenno anche nella lectio magistralis tenuta in occasione del Capodanno Senese 2014) e lo rilancia nell’attualità evidenziando come un tempo la pòlis fosse costituita dall’unità di persone dello stesso génos (genere, parentela, stirpe), mentre la civitas divenne aggregazione di persone diverse per religione, etnia, costumi. La pòlis – dice il filosofo veneziano – era rivolta al passato incarnato dal génos, la civitas guardava al futuro.
Questione indubbiamente complessa se trasferita al presente, poiché sappiamo bene che la risposta non risiede certo in quell’indifferenziato cosmopolitismo che ha trasformato le città in sterminate e discontinue aree. Non vi sono più altezzose mura a segnare confini, ma nemmeno una riconoscibilità che era data da una forma, da spazi in cui la vita sociale si muoveva e poteva riconoscersi. La bellezza sapeva coniugarsi all’uso, alla funzionalità; era un parametro etico, persino un’educazione sentimentale. Gli stessi spazi offrivano una ‘misurabilità’ del vivere e del senso comune, conferivano a quel modo di ‘abitare’ una dimensione simbolica. Tutto collimava: tempo, spazio, lavoro, riposo, ferialità, festa. Era quanto mai pertinente dire “la mia città”, poiché essa andava a coincidere con la mappa della propria interiorità e quindi con un forte spirito di appartenenza: tu abitavi la città, la città abitava te.
Di tutto ciò Siena è stata un film cult, e – nel bene e nel male – è scena non del tutto smantellata. Verrebbe allora da chiedersi se, proprio in virtù dei suoi trascorsi e in ragione di un domani necessariamente spalancato sul nuovo, la città non debba collocarsi a pieno titolo dentro quella dialettica che mira a ridefinire nel mondo polis e civitas, chiusura e apertura, particolarità e universalismo. Ovvero proporsi come un laboratorio permanente di cultura declinata nelle sue diverse forme. Un’officina di pensiero, arti, discipline (solo per fare un esempio torna in mente cosa significò, a questo proposito, un’esperienza come l’ILAUD, il Laboratorio Internazionale di Architettura e Progettazione Urbana portato a Siena da Giancarlo De Carlo verso la metà degli Settanta).
Insomma, immaginare Siena come una capitale della cultura sine die. Luogo di incontri, analisi, elaborazione di idee, confronto di esperienze, sguardi sulla realtà. Come a dire: vado a Siena per la sua bellezza, ma pure per scoprire quanto sia bello il mondo visto da Siena. Far generare, dunque, dal fascino del passato anche suggestioni di futuro. Ecco, essere patrimonio dell’umanità, significa altresì produrre ricchezza di umanità, visioni ampie che sono proprie di una civitas.
Saranno magari viete le citazioni del Buongoverno lorenzettiano. Ma quando osserviamo quel corteo di reggitori dello Stato che sotto lo sguardo di Pace e Giustizia vanno ad onorare il “Bene Comune”, sorge spontaneo cogliere un’attitudine (una vocazione) di questa città alla bellezza e al bene condiviso. E, quindi, perché non trovare il modo per ridisegnare al presente idee, idealità, pratiche di buongoverno sugli scenari spogli e ancora provvisori del nuovo millennio.