palio2_1.jpgOrmai non c’è sindaco, assessore o consigliere che non chieda di inserire qualcosa (tutto vale) nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco. E’ una delle tante mode italiane, inutile combatterla, bisogna soltanto aspettare che passi.

Un mese fa era stato il sindaco di Firenze, Dario Nardella, a perdere lucidità e senso della misura e lanciare non una, non due, ma addirittura tre candidature: calcio storico, scoppio del carro e rificolona. Ancora inspiegabile l’assenza del panino con il lampredotto, decisamente più meritevole degli altri tre.

Pochi giorni fa è stato invece il Consiglio regionale della Toscana, all’unanimità (di solito sintomo di inutilità delle cose) a chiedere invece l’inserimento del Palio di Siena, che non ne avverte assolutamente il bisogno – lo dico da senese – e dovrebbe invece essere lasciato in pace per ritrovare la sua vena più intima e autentica.

Mentre capisco bene e condivido lo scopo di tutela di luoghi e beni artistici e culturali che l’Unesco considera appunto come un Patrimonio dell’Umanità (in Toscana ne abbiamo sette: centro storico di Firenze, piazza dei Miracoli a Pisa, centro storico di Siena, Pienza, San Gimignano, Valdorcia e Ville Medicee), ho cominciato a nutrire forti dubbi sul significato del patrimonio immateriale quando ho visto lo “scontro” vinto dalla pizza napoletana ai danni della Luminara di San Ranieri di Pisa.

Scusate, ma io dico: in che mondo vivono all’Unesco? Ma come si fa a mettere a confronto due cose tanto diverse fra di loro? Quali criteri omogenei è possibile individuare per fare una scelta ponderata e ragionata? Cose da organismi internazionali e da consessi intellettuali forse troppo elevati, perché come ha scritto Beppe Viola, «a certa gente quello che la frega è la mancanza d’ignoranza».

Almeno ai miei occhi, la credibilità dell’Unesco è ulteriormente crollata quando ho scoperto che esiste perfino una lista delle “città creative” (proprio così, mi viene da chiedere scusa io per loro) a cui sono iscritte 69 città di 32 paesi, di cui tre italiane (Bologna per la musica, Fabriano per l’artigianato, Torino per il design) e altre tre sono invece quelle candidate da poche settimane: Parma per la gastronomia, Lucca per la musica e Roma per il cinema, sia pure con qualche decennio di ritardo rispetto ai fasti della Cinecittà dove lavoravano De Sica, Fellini, Rosi e Monicelli, mentre ormai gli studi ospitano solo produzioni televisive che non passeranno alla storia.

Va da sé che la maggior parte di queste proposte durano poi giusto il tempo di fare un’intervista di vago, ma piacevole sapore “internazionale”, su siti, tv e giornali a diffusione cittadina.